L’Adunata vien marciando ...
Nel 150° della Spedizione garibaldina
BERGAMO, CITTÀ DEI MILLE,
OSPITERÀ GLI ALPINI D’ITALIA
Lo sbarco dei Mille
Il caso ha voluto che Bergamo venisse scelta quale sede dell’Adunata Nazionale degli Alpini del 2010, data che si collega idealmente al 1860, l’anno in cui avvenne la “Spedizione dei Mille” alla quale Bergamo contribuì in modo fondamentale, tanto da meritarsi l’appellativo di “Città dei Mille”.
L’anno prossimo saranno passati precisamente centocinquanta anni, tanti quanti saranno trascorsi nel 2011 dalla proclamazione della prima capitale d’Italia, Torino, sede in pectore dell’Adunata in quell’anno.
Quindi un anniversario storico, una vicenda che ha meritato a Bergamo il prestigioso titolo in quanto furono numerosi e valorosi i bergamaschi che parteciparono all’epopea del Risorgimento. Non a caso l’Inno di Garibaldi (Si scoprono le tombe, si levano i morti, i martiri nostri sono tutti risorti ...) nacque nella villa Zerbino a Genova, dove il patriota bergamasco Gabriele Camozzi viveva esule; l’inno fu scritto da Luigi Mercantini e musicato da Alessio Olivieri. Alla prima declamazione dell’inno e alla sua prima cantata, con Garibaldi e Camozzi c’erano altri due bergamaschi, Luigi Dell’Ovo e Giuseppe Gamba. Infatti già da un decennio Garibaldi aveva numerosi seguaci e sostenitori in provincia di Bergamo. I fratelli Camozzi, Giovan Battista e Gabriele, impiegarono fiumi di denaro per finanziare le imprese tese all’unità d’Italia.
Il 26 aprile 1859 scoppiò la seconda guerra d’Indipendenza italiana (26 aprile - 12 luglio 1859). Gli avvenimenti che seguirono sono noti, quindi ricorderemo, per sommi capi, soltanto quelli che pongono in luce l’azione dei bergamaschi. Tra i Cacciatori delle Alpi - precursori degli Alpini - erano numerosi i bergamaschi, tra cui Gabriele Camozzi, Francesco Nullo, Francesco Cucchi, Alessandro Carissimi, Antonio Curò, Giuseppe Gamba e tanti altri, anche giovanissimi, che erano fuoriusciti dal Lombardo Veneto per arruolarsi con Garibaldi.
Nella notte del 7 giugno Garibaldi giunse a Caprino; la sera del 7 giugno gli austriaci lasciarono Bergamo; all’alba del giorno 8 la gente salutava la liberazione e da una finestra, sopra il Caffè Centrale del Sentierone, veniva esposta la prima bandiera tricolore. Garibaldi entrò in Città Alta dalla porta San Lorenzo che verrà poi chiamata con il suo nome. Nella stessa giornata emanò un proclama: “Tutti i giovani che possono prendere un fucile sono chiamati intorno alla bandiera tricolore”. Gabriele Camozzi, nominato commissario con pieni poteri per gli arruolamenti, in due giorni, nelle scuole ai Tre Passi, iscrisse più di mille nuovi volontari.
Il frutto delle vittorie e dello slancio volontario non ebbe i frutti sperati per l’improvvisa pace di Villafranca (11 luglio 1859); ciò scatenò la rabbia dei patrioti bergamaschi con tumulti in città. Da Lovere il 19 luglio, per calmare gli animi, dovette intervenire direttamente Garibaldi con un Ordine del giorno. Faceva poi seguire una lettera (25 luglio 1859) con la quale ringraziava “la cittadinanza di Bergamo per la generosa offerta fatta a favore dei feriti ed infermi dei Cacciatori delle Alpi”. Ma vi era ancora del malumore. Quasi a calmare gli animi, il 12 agosto si ebbe la visita del re, Vittorio Emanuele II. Fu ospite del palazzo Medolago, dove ricevette le rappresentanze cittadine e dove, soprattutto, s’incontrò con Garibaldi, che villeggiava a Ranica dalla famiglia Camozzi.
A primavera 1860, precisamente il 20 aprile tra gli studenti di Bergamo si sparse la voce della spedizione di Garibaldi in Sicilia. Si seppe che Francesco Nullo e Francesco Cucchi avevano iniziato gli arruolamenti, mentre Vittore Tasca, Daniele Piccinini e Luigi Enrico Dell’Ovo conducevano i giovani al luogo delle iscrizioni, posto in un vecchio fabbricato di via Borfuro. Non solo dalla città, ma anche dalla provincia giunsero giovani patrioti. Si raccolsero in tal modo i nomi di circa duecento volontari, per cui Bergamo fu poi dallo stesso Garibaldi chiamata “la città dei Mille”.
Ma Bergamo fornì non solo un quinto dei Mille, ma provvide anche a vestirli con le famose camicie rosse. A Gandino si tingeva un famoso scarlatto, la cui ricetta era segreta, perciò s’incaricò l’industriale Giovan Battista Flor a provvedere alla stoffa e alla tintura. Così dalla Tintoria degli Scarlatti, nella valle del Prato Servalli in Gandino, uscì la fiammeggiante stoffa che servì a confezionare le gloriose camicie, cucite nel laboratorio di Celestina Belotti, fidanzata allora di Francesco Nullo, sito in via Prato a Bergamo.
Quasi tutti i bergamaschi entrarono a formare l’8ª Compagnia, comandata da Angelo Bassini, che dallo stesso Garibaldi fu detta la Compagnia di ferro. Essa fu divisa in squadre, affidate rispettivamente a Enrico Calderini, Daniele Piccinini, Enrico Bassani e Giacobbe Parpani. Vittorio Tasca e Luigi Dell’Ovo ebbero l’ufficio di vice comandanti. Francesco Nullo restò nello Stato Maggiore, a cui fu aggiunto poi Francesco Cucchi. Persino il trombettiere che dava i segnali militari a tutta la spedizione era bergamasco, un certo Giuseppe Tironi di Chiuduno.
Qui non si ha la pretesa di narrare l’impresa garibaldina, ma ci si limiterà a richiamare alcuni episodi che ebbero come protagonisti i volontari bergamaschi. Secondo quanto scrisse il garibaldino Guido Sylva, fu all’attacco del Pianto Romano a Calatafimi che Nullo gridò: «Ché i Bergamàsch, töcc intùren a mè!». Ottanta giovani orobici gli furono subito dinnanzi. Il primo balzo fu dunque tutto bergamasco, poiché le camicie rosse dell’8ª Compagnia oltrepassarono correndo la pericolosa spianata e raggiunsero il primo terrazzo. Raggiunti poi dai compagni della 7ª, della 6ª e della 5ª, passarono al secondo terrazzo ed oltre. A Calatafimi i garibaldini ebbero trentotto morti e settanta feriti; dei quali sette morti e ventun feriti erano dell’8ª Compagnia.
A seguito della vittoria di Calatafimi, all’alba del 27 maggio, Garibaldi era alle porte di Palermo. Egli si proponeva di cogliere di sorpresa i borbonici, ma i picciotti delle squadre siciliane di La Masa erano avanzati, rovinando la sorpresa. Garibaldi dovette mandare subito rinforzi. Resisteva la barricata di Porta Termini, difesa da due compagnie di borbonici. Allora Francesco Nullo, alzando la bandiera tricolore e gridando «A noi, figli di Bergamo!», s’avvicinò alla porta, fece saltare la barricata al suo cavallo e piombò, seguito dai suoi, in mezzo ai nemici che presi dal panico si diedero alla fuga. In questa lotta cadde gravemente ferito Francesco Cucchi.
Dopo la battaglia di Palermo, Francesco Nullo fu a Bergamo per raccogliere nuovi volontari; e Bergamo rispose ancora una volta con generosa offerta di giovani. Lo stesso Garibaldi la lodò più tardi, scrivendo da Caprera a Camozzi (10 febbraio 1861): “Nella gioventù lombarda, sempre pronta a lanciarsi nel pericolo per la redenzione della patria, e che partecipò alla prima spedizione di Sicilia e di Napoli, contano in prima fila i prodi figli di Bergamo”.
Seguirono il passaggio dello stretto su dodici barche (8 agosto 1860): la successiva marcia da Aspromonte a Reggio; l’avventuroso inseguimento fatto da Nullo sulla strada di Mileto; l’aggiramento del nemico a Triolo, per cui Nullo diventò l’uomo di fiducia di Garibaldi; l’entrata in Napoli (9 settembre 1860); la resistenza a S. Maria Capua Vetere, comandata da ufficiali bergamaschi - Piccinini, Isnenghi, Bettinelli e Parpani - che rese possibile la vittoria del Volturno (1° ottobre 1860), in cui Francesco Nullo fu nominato colonnello sul campo.
Col plebiscito del 21 ottobre, i napoletani ed i siciliani dichiararono di volersi unire alla monarchia di Vittorio Emanuele. Il 17 marzo 1861 la Gazzetta Ufficiale di Torino uscì la prima volta intitolata Del Regno d’Italia e pubblicò il Decreto Reale, per cui Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia. La proclamazione del Regno d’Italia venne quindi solennemente annunciata anche a Bergamo, la terra che tanto contribuì all’unità d’Italia. In occasione della festa dello Statuto, il successivo 2 giugno, la giunta municipale pubblicò un manifesto celebrativo che iniziava con queste parole: “Concittadini! Nella storia dei secoli, questa è la prima volta che l’Italia vede tutti i suoi figli inneggiare in uno stesso giorno con una sola favella, al suo nome libero e redento”.
Luigi Furia |