Ecco l'Italia che vogliamo - I veci pensano ai bocia: sono il nostro futuro Stampa

L'analisi degli striscioni. Domina il tema dei giovani: ora rischiano il futuro e di perdere l'ascensore sociale. Gli immigrati: l'Italia nel cuore. «Il tricolore è la nostra bandiera». «Gli uomini passano, gli alpini restano»

 

 

Chi osserva quest'Italia un po' malmessa in arnese e che poi s'è lasciato prendere dalle braccia amiche della tregiorni alpina di Bergamo, alla fine, un po' intontito ma soddisfatto, si deve essere chiesto in che razza di mondo sia finito. Perché il lascito di questa straordinaria avventura umana che tutti abbiamo vissuto è questo: l'Italia reale è quella ordinaria, di tutti i giorni, che è quella che è, oppure quella che tutti vorremmo che fosse? Appunto, con un occhio alla cronaca: quella che abbiamo visto sfilare ieri per tutto il giorno, di un virtuosismo ineguagliabile. La «meglio gioventù» con il tricolore, una categoria che abbatte le barriere anagrafiche e che restituisce veci e bocia ad una felice sintesi fatta di una comunità fortemente identitaria, di un'italianità solidale che abbraccia Nord e Sud.
La cui ragione sociale è semplice da spiegare: gioire e soffrire con e per gli altri. Il che significa solidarismo e volontariato, la natura stessa di un'alpinità che è ormai senso comune e che però, essendo ritenuta un fatto scontato, rischia di essere svalutata in quanto giudicata acquisita per sempre. Eppure questo scatto d'orgoglio, questa eccezionale festa di popolo, di un popolarismo che riassume al meglio una complessità sociale (ricchi e poveri, colti e popolani, destra, centro e sinistra sul piano politico), ha avuto nei simboli una forza magnetica e un'attrazione tanto contagiose quanto impareggiabili: i volti vissuti con il sole dell'ottimismo di fronte, le sagome fisiche cadenzate sul «Trentatré», la marcia alpina, quelle divise arcobaleno che rinviano all'epica patriottica, quei tratti identitari che rimandano a uomini comuni, all'amico della porta accanto, al soccorritore che è nelle attese di tutti. Per un giorno abbiamo visto una città, la città garibaldina dei Mille, espropriata in ragione e per conto di una realtà che stava e che sta accanto a noi e fra noi, inconsapevolmente nel cuore di tutti, ma di cui forse non sempre abbiamo colto il valore.
L’Italia vera, quella con la schiena dritta, popolata da gente seria e di buon senso, da un comune sentire moderato che attraversa nel mezzo quell’opinione pubblica aliena dai radicalismi, il cui alfabeto storico è nel recinto del patriottismo civico e costituzionale dell’italiano brava gente. Con quelle liturgie, anche lessicali, che coprono comportamenti sanguigni, esuberanze giovanili senza età ma anche rigore morale: tutta la strumentazione che rende gli alpini partecipi di un mondo che sorride alla vita, che coltiva la speranza di un futuro migliore, perché si sporca le mani nel costruirne le fondamenta. Loro sono sempre della partita: sono «presenti», come rassicurava ultimativo qualche striscione. Parole, quelle che abbiamo acquisito alla sfilata di ieri, che prendono i sentimenti e che catturano vibrazioni sino agli occhi umidi: una forza senza limiti, che ha mobilitato sensibilità e scosso conformismi altrimenti destinati al grigiore burocratico della quotidianità. Come quando, in serata, a chiusura di una cavalcata che ha toccato le corde profonde dei sentimenti più vicini a tutti noi, ha sfilato «Berghem de sass» fra applausi straripanti. Oppure quando sulla carrozzella un reduce dell’Abissinia di Asiago, classe 1913, s’è messo a camminare per un breve tratto fra la commozione generale. E infine quando don Bruno, cappellano alpino di rara simpatia, ha coinvolto il settore delle autorità in un applauso corale al passaggio delle penne mozze di Verona. Il messaggio di questa adunata è stato esplicito: la solidarietà è stata un passo avanti l’unità nazionale. «Presenti con forza verso il futuro», diceva lo striscione di apertura, che dava il tono dell’adunata. Proviamo a scomporre le parole. «Presenti», cioè partecipi. «Forza», cioè il vigore vitalista e la concretezza operativa. «Futuro», cioè il passaggio della stecca dai veci ai bocia. Non stava scritto da nessuna parte, ma quell’irruzione mediatica piomba su un’Italia in bilico: fra crisi economica e un ascensore sociale che per i giovani s’è bloccato, per quella «generazione mille euro» (quando va bene) che consuma energie e prospettive in una precarietà lavorativa che umilia il presente e rapina il futuro. Il passaggio generazionale e la continuità alpina sono stati il carattere dominante nel segno di un «impegno che continua» e nel quadro di un’italianità che non esclude nessuno: «l’impegno dei giovani e lo spirito dei veci per l’Italia unita», il «valore dei veci trasmessi ai giovani», «i veci la storia, noi il presente, i bocia il futuro», «la forza del nostro passato speranza per il futuro». Con un richiamo dall’eco mazziniana: «lasciateci far vivere ed insegnare la parola dovere». E una traccia radicalmente comunitaria: «Julia religione della nostra gente». I messaggi degli alpini italiani sparsi nei più disparati angoli del mondo – dal Sudafrica all’Australia, dalla Colombia alla Bulgaria (con l’ambasciatore italiano a guidare la nostra delegazione) – sottintendevano un’armonia nostalgica, da lontananza da casa, quasi un voler agguantare la vicinanza al focolare domestico: «Neanche l’Oceano ci divide» stava scritto sullo striscione dei nostri connazionali in Uruguay, mentre i francesi ci ricordavano che «le montagne non dividono, ma congiungono» e i tedeschi segnalavano di avere l’Italia nel cuore. Ecco il rinnovarsi dell’afflato solidaristico: «gli alpini non hanno confini: aiutano tutti, lontani e vicini», «il cuore degli alpini abbraccia il mondo», «dove c’è un alpino c’è civiltà d’amore», «ieri alla patria, oggi all’umanità». Con una distinzione gerarchica fra l’attività militare e il lavoro civile: «ieri alla patria, oggi all’umanità», «in guerra per dovere, in pace per donare». Riaffermando in ogni caso, nel 150° dell’Unità d’Italia e in una roccaforte leghista, che «il tricolore è la nostra bandiera: come sempre, per sempre, per tutti». L’adunata ha avuto il pregio di toccare un tasto nevralgico della società italiana e di indicare una prospettiva in un disegno solidarista. I ripetuti accenni alla trasmissione dei valori dagli anziani ai giovani hanno messo a nudo un tema non ancora maturato dalla politica: la vulnerabilità delle nuove generazioni, che rappresenta una mina vagante. Che questa autentica piaga sociale sia stata assunta come questione prioritaria dall’Ana conferma un dato che non è una nota a margine: l’Associazione nazionale alpini è una delle poche agenzie rimaste con le antenne sul territorio, capace quindi di intercettare i nuovi bisogni della fragilità umana. Il secondo merito (e anche questo è una riconferma) è che questi veterani svolgono un’opera di decontaminazione da quei virus inquinanti che talora danno l’idea che abbiamo smesso di essere una nazione. Viceversa abbiamo visto un’Italia coesa, viva e reale, che non s’arrende, orgogliosa della propria storia e consapevole di dover amministrare con pratica ragionevolezza un presente fatto di consenso e di popolarità. Poi, certo, come ci ammoniva perentorio uno striscione, gli uomini passano, ma gli alpini restano. Insomma: sappiamo di essere in transito, ma anche che lo spirito delle penne nere sopravviverà a tutti noi. Va bene così.

 

Franco Cattaneo il 10/05/2010 - L'Eco di Bergamo