Insieme ai «fradis» friulani dalla caserma al terremoto Stampa

L'esperienza nella Julia, dove gli alpini si chiamavano tra loro «fratelli» E la mobilitazione nel 1976, quando Bergamo fu in prima fila a portare aiuto

 

 

Fradi, fradis - fratello, fratelli. Fu nelle caserme della Julia che scoprii l'inconsueto modo con cui gli alpini friulani si chiamavano tra di loro.
Non conosco quasi niente delle tradizioni di questa terra, per cui non so da quale consuetudine nasca questo «fradi». Forse un modo di dire antico come il «mandi» con cui rispondevano (oggi un po' meno) quando qualcuno si rivolgeva a loro.
A lungo ho creduto che «mandi» derivasse dalla contrazione di «comandi», mentre invece sembra che alla sua radice ci sia «mi racomandi a Diu». Un significato che Papa Giovanni Paolo II fece proprio quando, nella basilica di Aquileia, sottolineò come il popolo friulano usasse questo saluto che si può intendere come «che la mano di Dio ti accompagni - ti protegga nel tuo cammino».
Forse «fradi» ebbe origine nelle trincee dell'atroce guerra sul fronte dell'Isonzo o del Piave. Di fronte a tanta inumanità nacque spontaneo chiamarsi «fratelli». Giuseppe Ungaretti, il poeta di quei poveri soldati la cui esistenza era sospesa come a un soffio di vento (Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie) nella sua acuta sensibilità colse di quel «fradi» il significato più profondo: «Di che reggimento siete / fratelli? Parola tremante / nella notte...».
Mi abituai presto al «fradi», io che venivo da un modo tutto diverso di rivolgersi a qualcuno o di richiamarne l'attenzione. È il termine «capo». Oggi non è più diffuso come una volta, ma i bergamaschi più anziani quando si avvicinano a qualcuno che indossi una divisa, qualsiasi essa sia (dall'infermiere in camice al ferroviere, al vigile urbano), abbozzano un «capo» per avviare il discorso, quasi a voler riconoscere una gerarchia.
In quel «fradi» c'era invece un senso di fratellanza, di comune appartenenza che non mi era abituale. La caserma, il far parte dello stesso reparto offriva la possibilità di superare molte barriere. Oggi ci sono gli scambi tra scuole, le gite di istruzione, i soggiorni con l'Erasmus. Allora, oltre all'emigrazione, non c'era che la caserma dove giovani di ogni provenienza vivevano a contatto di gomito per mesi, e imparavano a conoscersi.
C'era con noi un sardo. Aveva fatto sempre il pastore, nient'altro che quello. Ma la «cartolina» era arrivata pure a lui e aveva dovuto passare il mare, andare in continente per entrare in una società che gli era totalmente estranea. Mi accorsi di lui una delle prime sere quando, tolti gli scarponi, si sdraiò sulla branda e, vestito com'era, si avvolse nella ruvida coperta di dotazione. Il suo mondo era sempre stato quello del pastore, per stalli e ovili. Era il suo modo di mettersi a dormire: una coperta e nient'altro. Gli spiegai come doveva fare. Era ritroso. Forse non gli riusciva di capire il mio gesto. Ma da quel momento cercò di imitare quello che facevano gli altri.
I Furlans, i friulani, non avevano bisogno di spiegazioni. Si adattarono fulmineamente alla vita di caserma. Ne sapevano già tutto, comprese scappatoie e sotterfugi. Il fatto di prestare il servizio militare a due passi da casa li favoriva nelle libere uscite. La fureria era loro e là riuscivano a spuntare il «ventiquattr'ore», il permesso che andava dalla libera uscita del sabato alla ritirata della domenica sera.
Quando rientravano li sentivi, eccome. Superato il portone della caserma proprio sull'ultimo squillo di tromba, attraversavano il cortile vociando. Voci allegre e malandrine, che cercavano di provocare l'alpino di guardia al parco automezzi. Qualcuno gli si avvicinava troppo, lo stuzzicava, fin quando non si sentiva il «Girate al largo!» gridato dalla sentinella con voce non proprio convinta.
Lo facevano apposta. Come quando piombavano in camerata lanciando un belluino «fradis» per bloccare l'incipiente sonno di chi era già a letto con l'invito a ritrovarsi nei gabinetti (il nostro «soggiorno», era comunque ben aerato), dove far fuori in compagnia il pane e salame portato da casa assieme all'immancabile «tajut». Dopo un po', tutti a dormire. Salvo venire svegliati nel cuore della notte dal «vecio» che, in piedi sulla branda, annunciava di essere prossimo al congedo con un agghiacciante urlo: «La va a pochiii!...» (giorni, naturalmente).
Ritrovai i fradis anni dopo, quando il terremoto nel 1976 devastò il Friuli. Quasi mille le vittime, interi paesi rasi al suolo, tra cui Gemona e Venzone, con le loro belle case in pietra carnica, i gioielli delle chiese romaniche e le tante testimonianze storiche. La rovina si incontrava già a Udine fino a diventare una devastazione via via che si risaliva il Tagliamento.
«Andiamo ad aiutare i fradis», fu l'appello che incominciò a correre tra le penne nere. E molti partirono subito, senza aspettare inviti o ordini. Quando l'Associazione nazionale alpini incominciò ad organizzare i campi dei volontari, molti erano già lassù: a ricostruire tetti, a rimettere in piedi stalle, a dare una mano nel tagliare l'erba per il fieno e per raccogliere il frumento. E pur tra i tanti lutti e le devastazioni i Furlans erano pronti per l'amicizia e l'accoglienza di sempre.
Con i fondi della sottoscrizione L'Eco di Bergamo concentrò il suo intervento su Colloredo di Montalbano, celebre per i vini bianchi delle colline moreniche. Dopo le scosse, sepolti i morti il primo segno di ricostruzione fu la baracca-bar innalzata nei pressi della chiesa parrocchiale. Qui il «tajut» fresco di cantina era garantito. Era il punto d'incontro, l'agenzia informazioni cui rivolgersi per sapere dov'era il sindaco e dove stavano lavorando i nostri.
Andai in giro per i campi che l'Ana aveva impiantato ovunque ci fosse bisogno e che furono un esempio di un'organizzazione tutta fondata sul volontariato. Ma chi li ricorda più quei generosi che lavorarono per una intera estate e tornarono altre volte ancora, sempre sacrificando riposo e ferie, a dare una mano?
Passai tra le rovine di Gemona, spettrale nel silenzio delle vie sommerse dalle macerie. Ero convinto, dopo le altre terribili scosse di novembre, non ci fosse più niente da salvare. Gemona fu tutto ricostruito, senza tanti mugugni e manifestazioni. Venne rimesso in piedi anche il duomo, le sue poderose colonne e i pilastri rimasti fuori asse che emozionano chi oggi ne percorre la navata.
Sì, fradis, ce l'avete fatta. La vostra «piccola patria» nell'ariosa valle del Tagliamento è ancora più bella. Ho cercato di rintracciarvi mentre sfilavate. È passato troppo tempo. Era per dirvi che qui dovevate trovarvi a casa vostra come io ero stato con voi, nelle caserme del Friuli. Anche per dirvi che quel giorno in cui mi chiamaste per la prima volta «fradi» è come se fosse ieri.


Pino Capellini il 10/05/2010 - L'Eco di Bergamo