Bergamasco comanda in Afghanistan Stampa

Il tenente colonnello Vezzoli è a capo del battaglione alpini Susa nella zona di Herat. «Nei nostri confronti l'atteggiamento della popolazione è sempre stato molto positivo»

 

 

Afghanistan: tanto lontano, ma, incredibilmente, tanto vicino. Vicino al cuore delle famiglie che hanno i propri cari impegnati nelle operazioni militari. Da un paio di settimane tra loro c'è il tenente colonnello Alberto Vezzoli comandante del battaglione alpini «Susa». Bergamasco, sposato e padre di due figlie, è alla sua seconda esperienza in Afghanistan.
Comandante, in quale zona state operando?
«La nostra base operativa avanzata è situata all'interno dell'aeroporto di Shindand, a circa 100 chilometri a Sud della città di Herat e 120 chilometri a Est dal confine con l'Iran. La nostra area di responsabilità comprende i distretti di Shindand, Adraskan e Farsi, per un totale di circa 24.000 chilometri quadrati, all'incirca la superficie di tutta la Lombardia».
Quali sono i vostri compiti?
«I compiti principali sono supportare le istituzioni e le forze di sicurezza afghane, minimizzando l'influenza dell'insurrezione sulla popolazione, al fine di proteggere la popolazione, ottenere e mantenere la stabilità necessaria allo sviluppo nella nostra area di responsabilità».
Ci sono molti rischi?
«In Afghanistan spesso i rischi sono in funzione dell'atteggiamento adottato, il nostro atteggiamento è improntato alla ricerca della massima collaborazione e coordinamento con le autorità governative locali, con gli elders dei villaggi e con le autorità religiose, affinché sia legittimata la loro presenza e autorità e il nostro ruolo sia percepito in funzione delle loro esigenze».
Ci sono differenze rispetto alla sua precedente esperienza in Afghanistan?
«Nella precedente esperienza facevo parte di un team di istruttori con il compito di addestrare l'esercito afghano nella pianificazione e nella condotta di operazioni connesse al loro impiego, ero per così dire embedded nella loro organizzazione, senza uomini alle mie dipendenze. Quest'anno, avendo le compagnie del mio battaglione alle dipendenze, posso estendere la mia collaborazione non solo all'esercito, ma anche alle forze di polizia e alle autorità locali, coordinando con loro gli interventi richiesti dalla popolazione per il tramite delle autorità stesse».
Dove era l'altra volta?
«Lavoravo alla sede del 207° Corpo d'Armata dell'Ana (che sta per Afghan national army) a Camp Zafar, a circa 10 km a Sud dell'aeroporto di Herat».
È cambiato l'atteggiamento degli afghani verso gli italiani? In meglio o in peggio?
«Il popolo afghano si contraddistingue per la sua grande ospitalità e generosità, anche nel condividere le poche cose che possiede, ma è anche un popolo dotato di profondi orgoglio, fierezza e coraggio. Chi viene con l'atteggiamento del conquistatore deve rivedere i suoi piani, chi viene con l'intenzione di rispettare la cultura, le tradizioni e la popolazione può ritornare arricchito sia dal punto di vista professionale che umano. Penso che questo sia l'atteggiamento vincente dei contingenti italiani che si sono avvicendati nel tempo da quando è cominciata la missione. Fin nei più remoti villaggi saper sorridere e dimostrarsi onesti fa la differenza. Per questo l'atteggiamento della popolazione è sempre stato molto positivo nei nostri confronti».

 


Gli alpini sono uno dei simboli del soldato italiano. Come vi accoglie la gente?
«Lo ripeto: la gente ci accoglie per come ci proponiamo nei loro confronti. Vero è che nei villaggi remoti dove non c'è energia elettrica, televisione, non arrivano giornali o automobili, la gente spesso fa fatica a capire se siamo afghani o stranieri. D'altra parte è anche vero che alla lunga lo spirito di solidarietà insito nel Dna alpino fa la differenza».
Addestrati sulle Alpi, impiegati in Afghanistan, che differenze ci sono?
«Paradossalmente nessuna, ci siamo preparati dormendo e lavorando nella neve in alta quota e in periodo invernale, con temperatura molto al di sotto dello zero, ora ci troviamo in una zona molto secca, arida e che durante il periodo estivo vedrà temperature superiori ai 45°. Questi due estremi hanno però in comune il fatto che si viene messi a dura prova e occorre centellinare ogni minima energia in modo da ottenere il meglio dal proprio fisico, anche in considerazione del fatto che dovremo lavorare qui per un periodo di circa 6 mesi. Dovremo bere molto, idratarci continuamente e fare attenzione durante le ore più calde del giorno, ma dopo aver preso tanto freddo per tutto l'inverno, sentiamo il bisogno di riscaldarci».
Quale è l'alpino del XXI secolo visto l'arrivo delle donne e degli immigrati?
«L'alpino è sempre quello, certo l'Esercito e i compiti a esso affidati sono cambiati nel tempo, ma lo spirito alpino è rimasto invariato anche se agli ordini risponde l'alpino Maria o l'alpino Mohamed».
Ma ci sono ancora i lombardi e i bergamaschi?
«Oggettivamente, anche se chi risponde è bergamasco della Valle Brembana, siamo molti meno rispetto a quando c'era la leva, ma occorre anche riconoscere che il bergamasco che si arruola, generalmente ha una marcia in più, non fosse altro per la costante operosità e per la straordinaria resistenza alla fatica che ci contraddistingue».
 

Mino Carrara il 09/05/2010 - L'Eco di Bergamo