Dopo il Don, i disegni della prigionia Stampa

In mostra in Russia gli schizzi dei detenuti nei lager sovietici, dove morirono molti alpini. Ma gli archivi rimangono chiusi: dopo 65 anni tante famiglie ancora in attesa della verità

Mosca - Mostre con i disegni sottratti dalla corrispondenza privata inviata a casa dai prigionieri di guerra: così, in Russia, si apre uno squarcio sugli anni tragici della seconda guerra mondiale. «Una rappresentazione grafica – ci spiega Evghenij Pisarev, giornalista e scrittore di Tambov, autore di un interessante studio sui campi di detenzione – spesso fa comprendere meglio delle parole dove ci si trova e lo stato d'animo dell'autore». L'Nkvd, la polizia politica di Stalin, lo sapeva bene ed evitava pericolose fughe di notizie. La propaganda comunista era attiva sia verso l'esterno che all'interno dei lager. Ora, i disegni del lager n. 64 di Morshansk saranno visibili al pubblico. Nel '93 il figlio del vicecomandante del campo, Igor Petrov, li vendette all'artista Nikolaj Voronkov, che nei prossimi giorni li esporrà in una scuola di Tambov. Titolo dell'iniziativa: «La cultura senza frontiere». Mischiate fra loro vi sono rappresentazioni compiute da prigionieri di diverse nazionalità. Si ritraggono scene tratte dalla durissima vita quotidiana e dalla lotta per sopravvivere.
Per l'avanzata sovietica del gennaio ‘43 sul Don, circa 70 mila italiani vennero fatti prigionieri. Alla fine del conflitto soltanto 10.030 nostri connazionali rientrarono in patria. Molti degli alpini, che avevano combattuto nella zona di Rossosch, furono detenuti a Rada, nei pressi di Tambov, e in altri campi. Fra i nostri connazionali del lager 188, la percentuale di decessi fu di oltre il 70%: 10-15 mila persone sepolte nelle fosse comuni.

 


Le condizioni di vita erano spaventose anche per la completa mancanza di mezzi dei sovietici, presi di sorpresa dal dover fornire vettovagliamento e un tetto a mezzo milione di persone in territori dove tutto era andato distrutto per il passaggio della guerra. «Ma non c'è mai stata volontà di rivalsa sui vinti – osserva Pisarev –. Quella era la tipica disorganizzazione sovietica». A Rada, dove erano internati militari di 29 diverse nazionalità, i prigionieri vivevano in «bunker» – grandi buche nel terreno e una tettoia appena fuori terra – in grado di ospitare 80 uomini.
Sul fronte ufficiale, quello degli archivi che racchiudono questa storia drammatica, non si segnala nulla di nuovo. «I fogli con i dati dei prigionieri e i loro interrogatori – racconta Pisarev – sono ancora secretati dalle forze armate a Mosca, mentre le cartelle cliniche sono sotto chiave a San Pietroburgo». Negli Anni Novanta il ministero della Difesa italiano ha, comunque, ricevuto gli elenchi degli internati in microfiche.
Dopo l'inizio del chiarimento tra russi e polacchi per la strage di Katyn del 1940 – con la pubblicazione su Internet in aprile di parte della documentazione d'archivio – non si capisce cosa vi possa essere ancora di segreto (o forse lo si intuisce) a distanza di 65 anni dalla fine del conflitto. Mosca e Roma hanno persino ottimi rapporti bilaterali, ma i documenti dei militari dell'Armir rimangono irraggiungibili, per la rabbia dei familiari di questi sfortunati. Una signora torinese, che in autunno ci contattò in cerca di aiuto, lotta da tempo per conoscere la verità sulla morte di suo zio.
«Conoscere la sorte di ognuno dei prigionieri – conclude Pisarev – sarà impossibile. La gente racconta che quando i vagoni dei treni erano aperti venivano scaricate montagne di cadaveri. Poi vi è il problema della registrazione dei nominativi con la trascrizione dal latino al cirillico compiuta dai militari sovietici. Molti prigionieri inoltre, soprattutto gli ungheresi, affermavano di essere ebrei, sperando in un migliore trattamento, o davano false generalità».

 

Giuseppe D'Amato il 08/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 

 
 

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