Il racconto del «vècio» «Il segreto degli alpini? Lavorare per gli altri» Stampa

Carlo Vicentini al teatro Donizetti

Il cappello che lui porta si nota subito tra migliaia nel foyer del Teatro Donizetti, perché è diverso da quelli di oggi: un po' più piccolo, meno rigido, piegato ma non consunto dagli anni. Carlo Vicentini è nato a Bolzano nel 1917, da un padre anche lui alpino, che lo ha allevato in quota: «Mi ha portato presto a sciare, e sui ghiacciai». Oggi però vive a Roma, «in esilio da una cinquantina d'anni» dice ridendo.

 


Ha fatto l'alpino ad Aosta, poi nel '41 l'hanno chiamato sotto le armi con il battaglione di sciatori «Monte Cervino» e, come tanti, è finito in Russia. Lì ha combattuto, si è guadagnato due medaglie di bronzo al Valor militare e alla fine della guerra si è ritrovato «in villeggiatura nei lager russi, per quattro anni», scherza. Lager al plurale perché «ne abbiamo cambiati diversi, ci spostavano». I momenti più duri sono stati i primi: «I russi non erano preparati a catturare così tanta gente: italiani, ungheresi, rumeni, tutti i tedeschi reduci della battaglia di Stalingrado… Lì è stato davvero tragico».
Vicentini ha raccontato la ferocia dei giovani soldati russi che li avevano in custodia, il freddo, la fame, l'indifferenza verso la loro sorte delle autorità sovietiche, la viltà, l'assillante pressione morale dell'ideologia nel libro «Noi soli vivi», che il grande giornalista Egisto Corradi definì «una delle migliori opere sulla partecipazione italiana al fronte russo». Ne ha parlato ieri pomeriggio al Donizetti, dove è stato presentato assieme a un altro libro anch'esso edito da Mursia, «Ritorno» di Nelson Cenci, un altro alpino reduce dalla Russia, compagno di Rigoni Stern.
Nonostante i 93 anni, alle adunate degli alpini Carlo Vicentini c'è sempre: «A dire il vero ne ho persa qualcheduna, è capitato che non stessi bene. Vengo alle adunate perché mi tengono vivo. Ma, soprattutto, quello che mi aiuta a campare anche oggi è ciò che ho imparato da alpino: resistere. Quando nella vita hai dei problemi, ci sono delle difficoltà, l'essenziale è resistere». Spesso i giovani gli chiedono come ha fatto a sopravvivere «restando per settimane senza mangiare, dovendo camminare e senza dormire perché i russi ci lasciavano un'intera notte all'addiaccio sulla piazza di un paese. La mattina c'erano decine e decine di prigionieri che rimanevano congelati e non potevano tirare avanti, ma noi si ripartiva». Per i ragazzi di oggi, «anche per i miei figli, che io ho abituato a dormire in tenda e non in albergo, sono cose incomprensibili – dice Vicentini – ma il segreto è semplicemente questo: in certi momenti devi tendere duro. Solo che per farlo ti devi essere allenato a resistere. Noi in montagna già da ragazzi abbiamo imparato la resistenza fisica, ad andare avanti, a trasportare lo zaino anche se pesa».
Non si resiste però mai da soli, l'uomo alfieriano – dice Vicentini – non può nulla contro le forze preponderanti e brutali della storia se è del tutto affidato a se stesso: «Per resistere devi avere dietro di te una tradizione. Quella degli alpini è una grande scuola, un eccezionale vantaggio. Quelli che avevo accanto in guerra erano tutti ragazzi che anche nella vita civile erano abituati a fare una gran fatica, abitavano in case di montagna in cui il riscaldamento non esisteva. Tutti dovevano lavorare, coltivare i campi, allevare le quattro bestie che li sostenevano. L'alpino – come si dice – "s'arrangia": ha imparato per forza a risolvere i piccoli e i grandi problemi che comporta la sopravvivenza in montagna», e in guerra questo ha salvato tanti di loro.
Il segreto dei vecchi alpini, che – ammette Vicentini – sono ormai un po' in estinzione era avere «meno esigenze» degli uomini di oggi e per questo secondo lui, nonostante le fatiche improbe che hanno affrontato, hanno vissuto in fondo un'esistenza «meno dolorosa di un uomo moderno». Lui dopo mezzo secolo di «esilio» sul Tevere si sente ancora profondamente un alpino. Non ha dimenticato la scuola dell'«aiuto reciproco: lavorare anche per gli altri. Gli alpini mi hanno insegnato che qualsiasi fatica dev'essere fatta nel vantaggio di tutti. Sapendo poi che quando avrò bisogno io, gli amici ci saranno». Per questo è ancora qui a Bergamo con il sorriso sulle labbra, la voglia di scherzare e di divertirsi con le penne nere e non un'ombra di delusione o di paura o di noia nello sguardo.
 

Carlo Dignola il 09/05/2010 - L'Eco di Bergamo