Il «Testamento», una canzone che sa d'antico Stampa

La celebre ballata alpina affonda le radici nel canto funebre per un condottiero piemontese.

È considerata una della più belle canzoni degli alpini, ma è anche il più famoso canto militare italiano. Dal ritmo lento, grave, malinconico, fa venire un po' i brividi quando, in lontananza, un coro di forti voci e ben intonate incomincia; «Il capitano della compagnia / l'è ferito, sta per morir...».

 


È «Il testamento del capitano», antico canto che risale al Cinquecento, passato attraverso una infinità di accampamenti e di caserme, cantato durante le soste e le lunghe marce e che si diffuse durante la Grande guerra. Ebbe il suo momento più alto e straziante durante la tragica ritirata di Russia.
Le colonne degli alpini procedevano a stento attraverso la steppa flagellata dalla neve e dal gelo. Il doloroso cammino verso Nikolajewka. Per i più quell'arrancare nella prateria sconosciuta e ostile aveva una sola meta, la «baita». «Sergent magiur ghe riverem a baita?», chiedeva una infinità di volte al giorno un alpino a Mario Rigoni Stern, il sergente maggiore del «Sergente nella neve».
La mattina del 26 gennaio 1943 a Nikitowka il capitano Giuseppe Grandi, di Cuneo, fu colpito all'addome durante un combattimento con i russi. Gravemente ferito, fu adagiato su una slitta attorno alla quale andavano raccogliendosi i pochi alpini superstiti della sua compagnia, la 46ª del battaglione Tirano. Nella menzione della medaglia d'oro alla memoria conferita al valoroso ufficiale, si fa diretto riferimento al fatto che il capitano chiese ai suoi soldati di intonare le strofe del «Testamento». Un ultimo struggente canto mentre lui moriva, in terre così lontane.
L'episodio, storicamente accertato, non ha molto spazio nell'epica alpina. Anche se citato da alcuni autori, quasi scompare nell'immane tragedia che decimò le penne nere. È tuttavia singolare il fatto che il capitano Grandi e il condottiero del Cinquecento al quale fu dedicata la prima versione del celebre canto, siano non solo piemontesi, ma degli stessi luoghi: di Cuneo Giuseppe Grandi, l'ufficiale degli alpini, di Saluzzo il secondo, Michele Antonio, figlio primogenito del marchese Ludovico II.
Presto avviato sulla via delle armi, Michele Antonio fu nominato, a soli dodici anni, governatore del contado astigiano. Con il padre prese poi parte alle spedizioni in Italia dei re francesi, Luigi XII e Francesco I, alla cui corte era stato allevato. Si distinse per particolare valore nella battaglia di Pavia del 1528, tanto che Francesco I lo nominò luogotenente in Italia.
Capitano generale dell'armata scesa in Italia con Francesco I, prese parte al tentativo di conquistare Napoli. Ma le truppe del re francese, decimate dalla peste che i lanzichenecchi avevano portato in Italia e diffuso con il sacco di Roma, furono sconfitte dall'esercito spagnolo.
Assediato nella città di Aversa, lo scoppio di una palla di cannone ferì Michele Antonio a un ginocchio. Prigioniero, fu trattato umanamente e trasportato a Napoli. Venne accolto nella casa del duca Tremoli, dove gli furono prestate le prime cure. Prossimo alla morte, volle attorno a sé i suoi soldati ai quali consegnò le monete d'oro per il loro riscatto. A queste sue ultime volontà aggiunse la richiesta che il suo corpo fosse sepolto nella basilica di Santa Maria in Aracoeli a Roma, ma che il suo cuore fosse portato nella terra dov'era nato, in Piemonte.
«Sur capitani di Salüsse l'à tanta mal ch'a mürirà», così inizia la canzone che narra la morte del comandante e che presto si diffuse tra le popolazioni del Saluzzese, del Monferrato e dell'Astigiano. Ripetuta dai reduci liberati grazie alla sua generosità, trasmessa tra i compagni d'arme, cantata negli accampamenti dei mercenari e delle infinite guerre che insanguinarono l'Italia, il «Testamento» conobbe varie versioni, attraversando la pianura padana fino a lambire le montagne del Trentino, i colli dell'Appennino e anche le marine.
E così abbiamo una versione umbra: «Capitano de Fiorenza s'amalado e sta per morì...», e anche veneta: «Il Capitano della marina è ammalato che vuol morì...»; nel Monferrato si ha un «Sur Capitanhe du Milizie...», mentre a Pontelagoscuro l'inizio è «Sior Capitani che beve l'acqua»,
Non mancano altre varianti, ma il testo più celebre, entrato poi nel repertorio ufficiale degli alpini, è quello che esce dalle trincee e dai combattimenti della Grande guerra: «Il capitano della compagnia / l'è ferito, sta per morire, / e manda a dire ai suoi alpini / che i se lo venga a ritrovar...». Un canto solenne, che nasce tra i monti. Questi sono giorni in cui sarà possibile sentir cantare il «Testamento» dai tanti cori che si esibiranno durante l'adunata. E saranno loro a far rivivere tra noi, in città, le misteriose suggestioni della montagna.

 

Pino Capellini il 05/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 
 

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Oggetti Smarriti

Sono stati ritrovati parecchi oggetti smarriti durante l'adunata.

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