Carona - «Dutùr, al ma pórte almeno zó a l'ospedal de Bèrghem, che quando egne de fò a só zamò lé». Era un mattino che pioveva, ieri, e al medico del 118 che lo stava caricando sull'eliambulanza lui lo ha detto in bergamasco,
la lingua che gli tiene compagnia da tutta una vita: dottore, portatemi almeno all'ospedale di Bergamo, ché quando mi dimettono sono già lì, all'adunata nazionale delle Penne Nere.
Era serio, quasi contrariato, l'alpino Migliorini Giovanni, classe 1919, da Carona, mentre lo sussurrava: non era un modo per sdrammatizzare davanti ai soccorsi, con la barella e le cannette, e quell'elicottero che presuppone sempre una certa gravità. Marcare visita proprio nei giorni del raduno: qui a Bergamo, poi, a due passi da casa. È questa la ferita che gli doleva di più, altro che quegli scompensi cardiaci che ogni tanto gli rubano il respiro, roba che dura qualche ora e poi torna tutto come prima. Una ritirata indecorosa, questa sì, mica come a Nikolajewka dove lui c'era davvero.
Lo stava attendendo con la trepidazione di un bimbo, questo appuntamento, e vederselo sfumare così dev'essere stata una disdetta. Poco dopo le 7, nella casa di via Angelo Bianchi dove vive con la moglie Mafalda, 87 anni, e la badante, l'alpino Migliorini Giovanni, che in paese chiamano Trédes (tredici) e nessuno sa il perché, è stato colto da una crisi respiratoria. Lui ha tentato di dissimulare: era già accaduto, cosa vuoi che sia? Ma la situazione stavolta sembrava più seria del solito. Hanno chiamato il 118, che ha fatto intervenire l'elicottero da Orio al Serio. Quando il velivolo s'è posato tra i prati e il laghetto di Carona, lui s'era già un po' ripreso e tentava di recalcitrare, ostinato come quei muli che ai suoi tempi di soldato servivano davvero, non come adesso che sono reperti di archeologia militare.
La moglie e la badante scuotevano la testa, il loro sguardo era un'implorazione ai medici: non dategliela vinta. Lui, l'alpino Giovanni, a un certo punto ha capito che doveva rassegnarsi al ricovero, ma ha giocato l'ultima carta: portatemi a Bergamo, ché almeno quando esco sono lì. Gli hanno raccontato una pietosa bugia, perché pochi minuti dopo s'è ritrovato in un letto dell'ospedale di San Giovanni Bianco. Dove poche ore dopo il suo respiro s'era già rimesso in moto, insieme alle speranze.
«Mio padre è un cocciuto, se si mette in testa una cosa, guai - sospira la figlia Antonietta -. Ci teneva all'adunata, aveva partecipato a quasi tutte fino a qualche anno fa. Ma adesso si stanca troppo facilmente e poi ha questo problema. Sarebbe dannoso per lui, meglio che la guardi in tv».
Glielo avevano già ripetuto un paio di settimane fa, quando i soliti scompensi cardiaci avevano richiesto l'intervento della guardia medica. L'alpino Giovanni aveva abbozzato, ma poi, senza farsi sentire dai familiari, aveva cercato la complicità del camice bianco: «Dai, dutùr, diga che pöde 'ndà», digli che posso andare. L'attesa fino a ieri l'aveva consumata fra qualche capatina al bar del paese e i racconti di quando era al fronte: Russia, Albania, neve, fame, morte. L'alpino Giovanni conserva i ricordi, i ricordi conservano lui. E piuttosto bene, si direbbe. Ieri pomeriggio era già una molla nel suo letto d'ospedale, pronto a lamentarsi con chiunque: «Ostrega, mi spiace non andare, ci tenevo tanto» insisteva, mentre i parenti simulavano una silenziosa arrabbiatura. L'alpino Migliorati Giovanni sembrava pronto a un nuovo, solito fronte («Mi fate andare, per favore?», l'unico su cui non sembra avere scampo. Ma per uno che ha combattuto a Nikolajewka salvandosi dalle baionette dei russi, cosa vuoi che sia il muso di moglie e figli?
Stefano Serpellini il 07/05/2010 - L'Eco di Bergamo
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