Dire sfilata è dire poco, è fare torto alla realtà. I quattro chilometri che portano noi alpini attraverso il cuore di Bergamo sono un grande abbraccio, un'intesa perfetta con la folla tra scambi di sguardi e sorrisi, battimani ritmati sul suono delle fanfare.
Un abbraccio senza distinzioni di censo e che coinvolge anche chi sta alle finestre e sui balconi, dalla popolare Borgo Palazzo alla borghese via Verdi. È una sintonia che ritrovi già in via Bono, uno dei punti dell'ammassamento per chi deve sfilare. Tra centinaia di penne nere in attesa della partenza ci sono mogli e figli, padri e sorelle ma anche tante persone qui non per appartenenza ma attirate dalla grande festa.
Questo luogo è un formidabile spaccato dell'Italia dei Comuni, un miscuglio di dialetti che tiene insieme le radici nei territori con l'unità d'Italia. Volano le Frecce tricolori, annunciate dal sibilio dei motori. È un attimo. «Ndó èle?» chiede un bergamasco. «Ndàcie» gli replica la moglie. Nel cielo fra i palazzoni restano segni di fumo rosso, bianco e verde. «Mona» dice un alpino veneto al collega che guarda dalla parte sbagliata. In via Borgo Palazzo sono pronti a partire gli alpini piemontesi di Omegna. «Posso sfilare con voi?» chiedo. «Avanti, sei dei nostri» dice una penna nera che ha fatto la naia in Valle d'Aosta. I gruppi bergamaschi si muoveranno in serata a chiudere l'83ª adunata e l'urgenza di scrivere purtroppo ha la precedenza. Ma gli alpini sono così: lo spirito di Corpo prevale sui campanili.
E allora pronti, si parte. In via Angelo Mai è già folla. Nei primi metri si prende il passo al suono della storica marcia «33». Si procede a un ritmo dolce e costante, sempre allineati a file di nove persone avendo come riferimento chi è a fianco e chi è davanti. È un esercizio di disciplina, che tiene in ordine il gruppo e che educa a stare insieme, al paragone con gli altri. Un alpino viene richiamato: porta alla cintura una vistosa gavetta, da rimuovere perché anche l'abito fa l'alpino e deve essere garantita l'uniformità dell'abbigliamento per quanto possibile.
Al di là dalle transenne arrivano saluti, battute, incitamenti e ringraziamenti. Dal classico «W gli alpini» al romantico «oggi c'è anche il sole per voi» (finché è durato…), dagli «Hip hip hurrà» al più banale «Alpino, vuoi del vino?» («No, siamo astemi» scherza una penna nera). Sui balconi ci sono famiglie intere a tifare per chi sfila. Hai la percezione che questa gente ti voglia davvero bene.
L'imbocco di viale Papa Giovanni è un colpo d'occhio formidabile. Le Mura imbandierate sullo sfondo, ai lati le tribune gremite dalle quali partono raffiche di applausi. Roba da dare alla testa ma gli alpini hanno i piedi per terra e sanno che quel tributo è per il Corpo che rappresentano, per la sua storia e le sue opere, per la dignità e la semplicità di uomini per i quali il darsi è un dovere, non una meritevole eccezione.
Lungo il viale l'abbraccio è un crescendo. L'apice è tra Porta Nuova (davvero bella l'idea di vestire le colonne dei propilei con il Tricolore) e le due grandi tribune sul Sentierone. Poi si dirada nelle vie Petrarca e Verdi, per tornare a crescere nel finale, fra il palazzetto dello sport e l'imbocco di Borgo Santa Caterina. Qui dopo un'ora dalla partenza si chiude la sfilata. È l'ora del rancio.
Alle finestre, fra tanti Tricolori, c'è una bandiera atalantina solitaria. L'unica nota mesta di una coreografia felice.
Andrea Valesini il 10/05/10 - L'Eco di Bergamo
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