Dodici ore di corteo: in 100 mila, un boato per i bergamaschi. E stavolta erano le donne dalle tribune a lanciare fiori ai mariti.
C'è gente aggrappata anche alle finestre della Banca d'Italia che nei giorni normali è l'intoccabile sacrario della finanza, presidiata dai mitra dei carabinieri e da cifre siderali, e che adesso è ridotta a una sorta di palestra di free-climbing per osservare meglio gli alpini che sfilano, come fosse un muro o un lampione qualsiasi.
È questa l'immagine di che cosa è stata Bergamo in questi giorni, invasa da più di mezzo milione di persone: una città sospesa, finalmente sorridente, capace di prendersi una vacanza dal suo senso del dovere a volte fin troppo ossessivo, e grazie al corpo militare che questo senso del dovere più lo rappresenta. Siamo rimasti ostaggio di un sano disordine per metà settimana, tende piantate ovunque, fanfare agli angoli delle strade, orari dei bar aboliti, ma anche zone malfamate riconquistate al passeggio serale. E poi, clacson di festa anziché di rabbia, gente in coda dietro a improbabili motocarri che sorrideva invece di imprecare, lentezza voluta e non imposta dalla congestione del traffico. È stato uno scorrere senza fretta, questo raduno, con la sfilata finale in terribile ritardo sul programma: più di 12 ore di corteo, 100 mila partecipanti (record di presenze per le adunate alpine), di cui 10 mila bergamaschi. Ma, in fondo, è giusto così, perché si è marciato rispettando il passo dei «veci», quelli che hanno fatto la guerra o che sono stati in Friuli a ricostruire dopo il terremoto. Sono loro, con la loro storia, il vero patrimonio di questo corpo, sono stati loro i più applauditi, e bisognava vedere gli occhi lucidi dei reduci (ma anche di qualche «bocia»), e le ovazioni della gente che è rimasta anche quando, intorno alle 17, è ricominciato a piovere. Lì, per ore, a vedere passare camicie a quadrettoni, bandiere e gonfaloni, bande con le stesse note.
Non c'erano effetti speciali (a parte il passaggio delle Frecce Tricolori, poco prima di mezzogiorno) come al cinema, eppure il pubblico era incantato lo stesso, e resta un meraviglioso mistero come gli alpini siano in grado di far rimanere incollati a questa lentezza tanti spettatori, quelli abituati allo zapping e alla velocità isterica e molesta della tv. Sarà l'incantesimo estetico delle vecchie cerimonie pietrificato dalla nostalgia. O forse, sarà il senso di riconoscenza della gente normale verso questa gente con la penna sul cappello, alla loro generosità e disponibilità, uomini che si fanno sempre ricattare dal cuore, un'eccezione antropologica in una società sempre più incarognita ed egoista.
C'erano nuvole basse che rubavano le montagne qua attorno, ieri, un affronto per la festa del corpo che ai monti appoggia il proprio orgoglio. Tribune di viale Papa Giovanni già colme alle 7,30, piazza Sant'Anna, il punto di partenza, che formicolava di divise e disposizioni. Ed era persino grottesco vedere i sindaci dei comuni bergamaschi, intruppati come reclute sotto i gonfaloni, prendere ordini da un vecchio alpino, uno che magari sabato prossimo attenderà indicazioni dal suo primo cittadino per un intervento di protezione civile. Ma in questi giorni il mondo girava alla rovescia, poco più tardi dagli spalti pioveranno garofani rossi e saranno gentili signore a lanciarli su barbe a badile e pance sa Ocktoberfest.
Il corteo è partito poco dopo le 9 da via Maj, con la fanfara della Julia, che precedeva la bandiera di guerra e i reduci tintinnanti di medaglie su mezzi quasi più datati di loro. Ed erano subito applausi, gente ammassata dietro le transenne, gente ai balconi imbandierati. Un generale scrutava preoccupato il cielo e il suo sguardo incrociava quello di un uomo in pigiama alla finestra. «Bravi, bravi», «Viva gli alpini», «Viva l'Italia». Erano cori semplici quelli che facevano da ali alla sfilata, felicità bambina urlata a pieni polmoni da donne e mariti, con quest'ultimi che poi si mettevano sull'attenti al passaggio della bandiera. Suoni così strani, eppure rinfrancanti, in questi tempi di «cattivismo» ideologico che ha relegato la retorica e la patria a concetti di cui vergognarsi.
Espressioni fiere sotto il cappello che viravano alla commozione una volta imboccato viale Papa Giovanni. Che era un muro di folla, con Città Alta bellissima e imbandierata come quinta, e gente anche sulle Mura che da lontano guardava il serpentone avanzare. E c'erano i militari stranieri, gli alpini francesi in bianco, e le sezioni Ana dall'estero, quella del Lussemburgo guidata da un anziano curvo sui suoi anni, le mani callose, le rughe che erano segni della storia, e quelli del Belgio che sfilavano con la lanterna dei minatori.
Era un viaggio nelle cadenze, la sfilata: da via Maj a piazzale Oberdan, passando per viale Roma, via Petrarca, via Verdi e via Battisti, fiorivano di volta in volta gli accenti veneti, piemontesi, lombardi, persino romani. Adesso Bergamo sembrava più un enorme paese, fatto di dialetto e di odori di cucina, che una città. Sfilavano gli alpini siciliani, una sorta di ossimoro, e poi quelli di Cuneo e Pinerolo, tantissimi, e ancora, Vittorio Veneto, Bassano del Grappa, il Piave e tutta la geografia dell'epopea militare. Ed era bello vederli abbozzare un timido saluto marziale, preferendo spesso sbracciarsi per rispondere al pubblico che li acclamava, bello perché ci ricordava più la gioia spensierata della pace che i crucci e gli obblighi formali della guerra.
Man mano che il pomeriggio avanzava, la cerimonia si trasformava in un'attesa per gli alpini bergamaschi. Che sono partiti solo alle 20, con il loro simbolo Leonardo Caprioli che salutava in piedi su una jeep, e il presidente Sarti in testa, e la gente che esplodeva in tifo da curva. «Bèrghem, Bèrghem» urlava il pubblico e anche chi sfilava, anche qui in un atteggiamento deliziosamente poco militare, in questa sera di freddo e pioggia. Zuppi, con l'acqua che li mitragliava, e un oceano di piume all'orizzonte che sembravano trafiggere il cielo basso. E che brividi vedere là in fondo avanzare lo striscione «Bèrghem de Sass», sacro anch'esso, quasi come una bandiera di guerra. Quando l'ultimo alpino ha svoltato l'angolo tornando al suo prezioso anonimato, le luci si sono spente e la città è ripiombata nel suo silenzio. Resterà negli occhi la meraviglia di una città trasformata dalla normalità di questa gente senza effetti speciali da offrire se non strambi motocarri. Perché se le Frecce Tricolori sono un'emozione, gli alpini sono un sentimento.
Stefano Serpellini il 10/05/2010 - L'Eco di Bergamo
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