L'intervista - Marcello Bellacicco (comandante brigata Julia) Stampa

«Alpino oggi? Non per la pagnotta. Chi va in Afghanistan ha bisogno di altre spinte»


 

Julia, un nome che mette i brividi a ogni alpino, un nome che commuove i bergamaschi che nelle fila dell'allora divisione hanno servito e combattuto in Grecia e in Russia. Ricordi lontani, ma non sbiaditi che riverberano nei racconti di reduci, figli e nipoti. E la lunga marcia della Julia continua: prossima tappa l'Afghanistan.
«Da ottobre – racconta il generale Marcello Bellacicco, comandante della brigata – rileveremo la brigata Taurinense attualmente impegnata in Afghanistan dove rimarremo fino alla seconda metà di aprile».
In quale zona dell'Afghanistan sarete?
«A Herat: la medesima dove ora è disloccata la Taurinense. Ovviamente a meno di variazioni che attualmente non prevedo».
In attesa della missione, la trasferta a Bergamo...
«Siamo presenti con circa 350 alpini e con il gruppo bandiera del 5° reggimento. Il reparto da sempre nel cuore dei bergamaschi».
Come ha trovato Bergamo?
«I bergamaschi sono forti e Bergamo è una bella città: una città storica, un importante punto di riferimento per questa zona. Vedere tutte quelle bandiere sulle Mura è qualcosa di unico, ma ci vogliono inventiva, voglia e lavoro per fare tutto quanto è stato preparato per l'adunata. E ai bergamaschi non mancano visto lo sviluppo di questa zona».
Gli alpini sono venuti a Bergamo, ma i bergamaschi si arruolano ancora negli alpini?
«Il trend sta riprendendo a salire. Dalle statistiche della brigata emerge che il 10% è di friulani, una percentuale analoga è costituita da veneti poi ci sono lombardi. Si sta rivalutando, anche se in quelle zone non si è mai svalutata, l'ipotesi di entrare negli alpini».
Sotto il profilo professionale c'è infatti la possibilità di entrare nelle forze di polizia...
«Sicuramente questo è un aspetto importante»
Che insieme alla carenza di lavoro può spingere i giovani a scegliere la divisa?
«No. Non concordo con chi fa questa analisi. Non si va rischiare la pelle tanto per avere un mestiere. Io sono figlio di un carabiniere, mio padre era pugliese, ma sicuramente non ha scelto l'Arma perché non sapeva cosa fare. No ci vuole altro e lo dico avendo osservato come lavorano i nostri ragazzi. Mi spiego: quando si deve andare in pattuglia, magari poco dopo che è saltato un mezzo con dentro alcuni compagni, non si va perché c'è come motivazione la pagnotta. No ci vuole qualcosa d'altro, ben altro e di più profondo».
Per le vie di Bergamo si sono riviste le penne nere con l'operazione «Strade sicure». Un gradito ritorno...
«L'operazione sta riuscendo bene e, secondo quanto dicono le altre forze di polizia, c'è una buona collaborazione».
Ma è un'esperienza utile per i militari?
«Sicuramente. In Italia abbiamo dato vita, tra l'altro, a Forza Paris e Vespri Siciliani, e il fatto di lavorare con le forze di polizia ci ha permesso di acquisire capacità e ulteriore professionalità che va a riflettersi nelle operazioni all'estero dove i nostri sono in grado di operare sotto il profilo militare, se attaccati, oppure di gestire situazioni di ordine pubblico».
Una caratteristica del soldato italiano è quella di saper colloquiare e mediare. Una capacità che in Somalia risolse molti problemi.
«È vero. L'altro giorno mi hanno domandato che differenza c'è nel nuovo approccio della Nato in Afghanistan. Nessuno per quanto ci riguarda, molto per gli altri che adesso stanno mettendo al centro di qualsiasi obbiettivo strategico la popolazione. Ma per noi non è una novità».
 

 

M. C. il 10/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 
 

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