«Laggiù per far ripartire un Paese. E per i bambini» Stampa

Al parco Suardi le storie degli alpini di ritorno dall'Afghanistan. Ci sono anche due giovani bergamaschi

Tutti dicono che ci tornerebbero, in Afghanistan. Fai fatica a tirargli fuori i ricordi: ammettono solo che ci sono, tanti. Alla cittadella degli alpini, al parco Suardi, i militari sono di picchetto alle tende che ospitano il collegamento in videoconferenza con le basi di Herat e di Kabul e la mostra fotografica dell'operazione Isaf.

 


Filomena Aniceto, 28 anni, foggiana bruna e minuta, caporal maggiore scelto, è stata in Afghanistan nel turno 2008-2009, alla base di Herat. È negli alpini da dieci anni. «Per caso: ho deciso di entrare nell'esercito quando avevo 18 anni e allora non si sceglieva, ti destinavano loro. Degli alpini non sapevo niente, adesso sono contenta, ci sto bene. Appartengo a una Compagnia fucilieri – racconta – e a Herat facevamo il nostro lavoro. In ogni momento e con ogni gesto cercavamo sempre di portare solidarietà. La pace è un percorso lungo da fare, ma si farà. Pattuglie, guardie, sorveglianza del territorio sono state le attività militari. Poi c'è stato tutto il lavoro umanitario. Per me non è stata la prima missione internazionale. Sono stata in Bosnia nel 2002 e in Kosovo nel 2003-2004». Che cosa si porta a casa da queste esperienze? «Dal punto di vista professionale, tanto coraggio: si impara davvero, di fronte alle situazioni, a essere più preparati tecnicamente, più sicuri e saldi. Umanamente si portano a casa tanti ricordi che restano dentro per sempre». Un sorriso e s'infila nella tenda della videoconferenza, un modo di tornare laggiù.

 


Gianni Carpanelli, maresciallo capo di Cividale del Friuli, ha 40 anni, ed è «figlio d'arte. Mio papà era alpino e io fin da piccolo volevo far l'alpino. Così, eccomi qua. In Afghanistan ho lavorato soprattutto all'operazione umanitaria "Un ponte per Herat", con la quale, grazie ai fondi offerti dal Comune e dall'Ana di Cividale, abbiamo realizzato un Centro gravi ustionati dentro l'ospedale che era stato già sistemato da soldati francesi e tedeschi dell'Isaf. Abbiamo realizzato anche alcune stanze per i parenti dei ricoverati che arrivano da villaggi lontani e non sanno dove stare. I soldati italiani laggiù, di tutti i corpi, sono impegnati ad aiutare la ricostruzione del Paese: scuole, strade, ponti per far ripartire l'economia e la cultura del posto. Anche le operazioni di sicurezza sono in funzione della salvaguardia della popolazione civile. Certo, c'è sempre chi intende fare il suo gioco, il fondamentalismo c'è. La mia impressione è che la popolazione civile sia grata davvero e che ci siano molti infiltrati da Iran e Pakistan. Quello che colpisce è la gratitudine soprattutto dei bambini, la gente che si rende conto che li aiutiamo. Dal punto di vista militare stiamo anche addestrando le forze armate afghane, in modo che diventino autonome e noi ci si possa sganciare. Nei teatri operativi post conflitto bisogna infatti intervenire sostituendosi allo Stato per ricreare le basi per la vita economica e sociale. Il Prt, il Provincial Reconstruction Team dell'Isaf, ha proprio questo compito. In qualche caso significa difendere le iniziative dei civili perché non vengano distrutte dai talebani e per disperazione tutti si diano al brigantaggio».
Un ricordo particolare? «I bambini dell'orfanotrofio di Herat, dove portavamo giochi e cibo. Cercavamo di seguirli bene, soprattutto quando ci siamo accorti che quello che portavamo ai piccoli veniva requisito e rivenduto da chi gestiva la struttura. Invece, mostrando che eravamo presenti e che sapevamo controllare la situazione, abbiamo visto che i bambini erano tenuti meglio e sorridevano di più. Abbiamo costruito anche scuole, e anche qui la gioia dei bambini era reale». Carpanelli ha un'esperienza internazionale notevole: Mozambico 1993, Bosnia 2000 e 2001, Kabul 2006, Herat dall'ottobre 2008 al marzo 2009.

 


Jean Carlos Pacati, 23 anni, di Mozzo, una bella faccia aperta, si è fatto l'Afghanistan a Bala Baluk, deserto di sassi dipendente dalla base di Farah. Come mai un nome un po' inglese e un po' spagnolo? «Sono brasiliano di nascita – risponde con un grande sorriso – e alpino da cinque anni. Mi sono arruolato subito dopo il compleanno, ho sempre sognato di fare l'alpino. A Bala Baluk sono stato dal gennaio al marzo 2009. Io sono fuciliere sul campo. Come nucleo scout andavamo davanti alla colonna nelle operazioni di pattuglia. Verifica delle possibili minacce, le cariche nascoste, cose così. Senti che sei responsabile per tutta la colonna che si snoda dietro di te» Nelle sue parole senti la fierezza di chi ha svolto bene un incarico difficile e essenziale: «Il mio compito era anche guidare le pattuglie nei villaggi quando c'erano colloqui con i capi e garantire la sicurezza per le missioni umanitarie». Ci torneresti? «Certo. Anzi ci tornerò con la Julia nell'ottobre prossimo».

 


Matteo Morlacchi, 28 anni, di Stezzano è stato anche in Bosnia nella seconda missione, prima di approdare a Kabul tra il 2006 e il 2007: «Sono stato impressionato dalla gente e dalla geografia dei luoghi – racconta pesando le parole –. È difficile spiegare perché. Tornerei sì, sono disposto ad andare in qualunque posto, le missioni internazionali mi appassionano, danno l'opportunità di crescere come uomini e come professionisti».
 

Susanna Pesenti il 09/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 

 

 

 

 

 
 

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