Io, che alpino lo nacqui - Storie da recluta Stampa

Io, alpino venuto su a suon di tamburo

 

Io, da alpino, sono venuto su a suon di tamburo. Immaginatevi un vasto cortile vuoto, una fila di stenti alberelli verso l'alto muro che separava dalla strada. La caserma come un grande cubo, buono per 300-400 giovani. E un'aria della malora che arrivava giù dal Gran Sasso. «Car», acronimo di Centro addestramento reclute all'Aquila, un novembre di ormai molti anni fa. Immaginatevi il cortile e noi, non ancora «bocia» ma solo dei vilissimi «parafanghi» (così venivano chiamati, e non ho mai saputo perché, i futuri, quasi imberbi alpini). La divisa ce l'avevamo: camicia, maglioncino, pantaloni e giubbino, scomodi e ruvidi, di quel colore indefinito che allora veniva chiamato caki; ai piedi massicci scarponi, i vibram, il cui vero utilizzo l'avremmo capito tra poco. Ci diedero il fucile, che fu collocato nelle rastrelliere tra le brande della camerata.

 

 


Sorvolo (e qui non posso non raccontare in diretta) i moccoli, gli accidenti che accompagnarono il lavoro di cucito (avevamo in dotazione ago e filo) per sistemare mostrine e scudetto sulla divisa. Magari avessi potuto usare la colla: una passata e via; no, punto dopo punto, e preciso (mai fatto in vita mia, a casa c'era la mamma). Niente, comunque, rispetto alle difficoltà nel fissare l'aquila in panno sul davanti del cappello. Questo sì che era un lavoro da mani di fata: bisognava centrare ben bene l'aquila: né alta, né bassa, né più di qui che di là...
Adunata in cortile! Ci allineammo in qualche modo su tre file. Ci fecero provare e riprovare a prendere e a mantenere le distanze, ad allinearci, a tirarci su nell'attenti e ad assumere la posizione corretta di riposo... Fissi! Dest! Sinist! Prova e riprova, e poi incominciò il tamburo. Bum-bum, bum-bum. All'inizio solo un gran fracasso. Un alpino batteva a più finire sulla grancassa. E mentre batteva ci fecero marciare. Marciare avanti e indietro. Battere il passo! Allineati! Dietro-front! Bum-bum, bum-bum. Fin quando quel ritmo cadenzato non mi entrò nelle orecchie. Meglio: ci entrò nelle orecchie, perché dovevamo arrivare a muoverci tutti assieme. Avanti e indietro, bum-bum! Fin quanto quella massa di giovani arrivati dalle regioni alpine ma anche dal sud si trasformò in un plotone ben coordinato nei movimenti.
Poi arrivò il fucile. E fu tutta un'altra cosa. Era un Garand che gli americani avevano usato nella guerra di Corea e che poi avevano passato all'esercito italiano. Pesante, massiccio, l'equivalente del Novantuno usato da mio padre. Bisognava marciare con quello tenuto bene in pugno, parallelo al terreno ma allineato, pure lui.
Marciare, battere il passo, tenere la cadenza, una volta in fondo al cortile girare tutti insieme, ben distanziati, senza sbattere con la canna del fucile nel posteriore di chi c'era davanti (all'inizio impresa non facile: proteste dell'interessato e urla del tenente e del sergente). E ancora il tamburo: bum-bum! E finimmo col marciare (ma non così marziali) come quel reparto della Julia (a proposito, anch'io ha fatto i miei diciotto mesi in questa brigata) che abbiamo visto scortare la bandiera del quinto e che anche oggi sfilerà per Bergamo.

 


Tutto qui? E no, perché credo che ogni recluta abbia, tra gli alpini, un suo percorso e una sua vicenda. Io l'ho avuta con il vino. In casa mia il vino era sconosciuto, o quasi. Lo beveva papà, giusto mezzo bicchiere a pasto. Quando fu il momento del rancio, preso il mio vassoio di latta con pasta al pomodoro, lo spezzatino (onnipresente), dal momento che mi stavano versando la mia razione di vino nel gavettino, chiesi – penso sommessamente: di fronte ai «veci» ben sistemati in cucina ero invisibile, o quasi – se potevo avere un po' d'acqua.
Venne giù la caserma. Ero finito in un branco (ma sì, chiamiamolo così quel gruppo di accidenti di reclute che non perdevano occasione per fare comunella) di friulani che marciavano a vino. La loro unità di misura era il «tajut», un bel bicchiere pieno. Erano muratori, manovali, boscaioli; tutti i mestieri più faticosi erano i loro, quasi tutti già con un'esperienza di emigranti già prima di indossare la divisa.
Erano rotti a ogni fatica, con un'esperienza delle mille scappatoie della naia che doveva essere nel loro dna di generazioni di alpini, di artiglieri alpini, di conducenti di muli. Abilissimi (e lo constatai più tardi in varie occasioni da militare e non, proprio in Friuli) nello scovare un fiasco di vino e nello svuotarlo. Ma sempre in compagnia. Niente ciucche solitarie, come capitava ai calabresi o ai sardi: le loro erano bevute corali, fragorose, coinvolgenti. Ma allora, come si diventa alpino o, meglio, come uno «è» alpino? La domanda mi è stata posta prima che iniziassi a scrivere questo articolo. Francamente non lo so. a meno di non rispondere come la celebre frase di Totò. Io, signori miei, alpino lo nacqui.
 

Pino Capellini il 09/10/2010 - L'Eco di Bergamo

 
 

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