Per due terzi la provincia di Bergamo, terra fertile di alpini, è occupata dalle Prealpi Orobiche che, dagli oltre tremila metri del Pizzo Coca, degradano in forme mutevoli fino alla fertile “bassa”.
La montagna bergamasca si può ben dire la parente povera di una regione ricca. I terreni montani hanno sempre richiesto grandi fatiche per scarsi raccolti. Eppure generazioni sono state fedeli a queste aspre contrade, perché lassù si respirava più che altrove aria di libertà. Non a caso i comuni montani furono i primi ad emanciparsi e a darsi propri statuti.
L’aspro ambiente montano ha forgiato lo spirito d’indipendenza e intraprendenza che, senza tanti fronzoli o parole, distingue l’operare dei montanari bergamaschi. Gente che ha sempre avuto a che fare con la roccia (“Bérghem de sass”) e che ha insegnato a mezzo mondo l’arte mineraria e metallurgica. E quanto siano tosti i bergamaschi lo scoprì presto anche la Repubblica di Venezia, il cui “dominio” su Bergamo durò più di tre secoli (1427-1797).
La Serenissima ne diede questo giudizio: “Urbs lapidosa suo semper dat saxa regenti: si bene dat lapidem, si male dat lapides”. Per dirla in volgare, visto che il latino non si usa più neppure in chiesa, significa che a Bergamo i sassi non mancano proprio, nemmeno nella vita amministrativa: se li governi bene i bergamaschi sono pronti anche a dedicarti una lapide, ma se li tratti male i sassi te li tirano in testa.
Del carattere della gente bergamasca “fiama de rar, ma sóta la sènder brasca” (fiamma raramente, ma sotto la cenere brace) se n’accorse anche Garibaldi, al quale bastò un piccolo soffio per accendere quel fuoco.
Ed ecco che allora furono i bergamaschi a dargli il maggior numero di volontari per la spedizione dei Mille e successivamente per rimpolpare i ranghi dei Cacciatori delle Alpi. Da quando, poi, fu
istituita la coscrizione alpina in Italia, Bergamo è sempre stata tra le province con il maggior numero di uomini con la penna nera, uomini di montagna il cui modo di essere e di operare ha dato una connotazione unica alle Truppe alpine, forgiate dal severo ambiente montano. Anche se non si era nati in montagna, bastava la naja alpina perché l’animo fosse conquistato da un patrimonio di princípi e valori che costituiscono l’alpinità.
Spirito alpino che Giacomo Calvi, ufficiale di complemento del battaglione Edolo, così illustrava: “I battaglioni alpini presentavano caratteristiche di estrema omogeneità, perché a quel tempo si
usava ancora il reclutamento regionale: per esempio, il 5° Alpini era formato tutto da lombardi, in grande maggioranza bresciani e bergamaschi. Questa omogeneità creava un ambiente migliore
e più compatto di quello che si aveva in altri Corpi […] montanari da sempre, usi a superare certi ostacoli, a vivere in un certo ambiente e clima […] Era anche gente temprata dai duri sacrifici […], con uguali tradizioni in comune e una sua cultura più omogenea. […] Il fatto di conoscersi tutti portava ad aiutarci l’uno con l’altro, a rischiare anche la vita pur di salvare qualcuno, a recuperare dei feriti e seppellire i Caduti ”.
Bergamo, quindi, è terra di alpini, ma non tutti sanno che esiste un forte legame tra la città ed il 5° Alpini. Addirittura la storia di Bergamo e quella del celebre reggimento si sono più volte intrecciate. A cavallo tra Ottocento e Novecento, un battaglione del 5°, il Morbegno, era insediato
nella caserma Montelungo e fu coinvolto negli esperimenti che portarono ad adottare la divisa grigioverde. Gli alpini del Morbegno, come del resto tutti i reparti con la penna nera, avevano
indossato in origine una divisa con quelli che erano i colori dell’esercito piemontese:
giubba turchina e pantaloni bianchi. Il che li rendeva, soprattutto in ambiente montano, molto visibili. La questione fu dibattuta, ma solo nell’aprile 1906 si passò ad esperimenti pratici. E furono scelti proprio gli alpini del Morbegno. Come suggeriva Luigi Brioschi, presidente del Cai di Milano, alcuni militari indossarono un nuova divisa di colore grigio e vennero inviati su per la Maresana e il Canto Alto, due rilievi a nord della città; li seguirono altri alpini con l’uniforme tradizionale. Contemporaneamente un gruppo di militari dello stesso battaglione, scelti tra quelli con la vista più acuta, fu inviato sulle loro tracce. L’esperimento andò tutto a favore delle nuove divise. Le prove di tiro furono ancora più eloquenti: mentre una sagoma con i colori tradizionali (turchino e bianco) venne raggiunta ben otto volte da colpi di fucile alla distanza di 600 metri, un solo colpo fu registrato sul bersaglio di colore grigio. Nacque così il “plotone grigio”
composto da 40 uomini della 45ª compagnia del Morbegno. La nuova divisa, dopo varie prove e modifiche, diventò “grigioverde” e nel 1908 fu adottata da tutto il Regio Esercito.
Lo scoppio della Grande Guerra scombussolò un po’ tutto e gli alpini bergamaschi furono in particolare impegnati in quella che prese il nome di “Guerra Bianca”, dimostrando il loro valore. A tal proposito, Cesare Battisti, comandante nel 1915 della “Cinquanta” dell’Edolo, così scriveva ad un amico: “Questi alpini bergamaschi formano una truppa scelta di montanari. Sono dei veri giganti. Li avesti visti ieri dare scalata alle rocce senza scarpe, per non fare rumore, e portando sulle spalle fino a quasi tremila metri un cannone. E il termometro segnava parecchi gradi sottozero. Essi fanno dei veri miracoli, sopportano le più dure fatiche […]”. Carlo Emilio Gadda, allora giovane ufficiale del 5°, poi letterato di successo, degli alpini del tenente Attilio Calvi scriveva: “Era una
compagnia composta quasi esclusivamente di sciatori, diavoli bergamaschi, scatenati sull’Adamello, nella tempesta e nella bufera glaciale”.
Una volta cessato il conflitto, l’Esercito riprese il suo assetto tradizionale ed ecco che il 5° Alpini ricomparve in città. Il 3 luglio 1921, proveniente da Milano, il Comando prese possesso della caserma in via San Tommaso che gli era stata assegnata. Si trattava di un ex convento, situato proprio davanti all’Accademia Carrara; lo stesso edificio ora occupato dalla GAMeC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea).
Bergamo, “accogliendo nuovamente tra le sue mura i baldi alpini del 5°”, come riportò la stampa dell’epoca, organizzò grandi festeggiamenti. Allora erano ancora vive le gesta compiute dai fratelli Calvi, da Gennaro Sora, da Carlo Locatelli e da tanti altri alpini bergamaschi sui ghiacciai dell’Adamello. L’occasione fu propizia per la fondazione della Sezione ANA di Bergamo, che vide la luce proprio in quei giorni.
Il reggimento non volle lasciare nel capoluogo lombardo il celebre monumento che raffigura un alpino del Quinto, Antonio Valsecchi, che, durante la guerra di Libia, esaurite le munizioni si difese scagliando un macigno contro gli attaccanti arabi. A Milano sorgeva davanti alla caserma del Quinto, lo stesso avvenne per Bergamo: fu innalzato nell’attuale piazzetta Carrara.
L’inaugurazione, tenuta il 15 giugno 1922, si svolse alla presenza di Vittorio Emanuele III e durante la cerimonia fu inaugurato anche il “gagliardetto” della Sezione bergamasca. Il monumento fu poi portato ancora a Milano quando, nel 1926, il reparto fu di nuovo destinato in quella città.
Non possiamo dimenticare, nello stesso anno, l’impresa di Gennaro Sora al Polo Nord nel tentativo di soccorrere i naufraghi del dirigibile Italia, che diede nuovo lustro a Bergamo alpina. Dopo aver esplorato un tratto della costa della Terra di Nord-Est, Sora si avventurò di propria iniziativa sull’insidiosa banchisa polare alla ricerca della “Tenda Rossa” di Nobile, percorrendo circa 400 chilometri. La sua impresa tra i ghiacciai del Polo Nord è rimasta leggendaria ed è ancora ricordata e celebrata tra le genti scandinave.
In quegli anni erano pure frequenti le esercitazioni di reparti alpini sulle montagne bergamasche. Grande risonanza ebbe l’impresa della 30ª batteria del Gruppo Valcamonica che portò due pezzi sulla Presolana (2.551 m.), la montagna dolomitica che gode del titolo di “Regina delle Orobie”. Ciò avvenne l’8 settembre 1941. Si legge sulla relazione “data la pendenza della parete che
impediva il traino dei carichi, si addivenne al trasporto a spalle, benché particolarmente difficile [...] Alle ore 8,45 il carico coda e ruote del primo pezzo era in vetta. Ad un quarto d’ora di distanza, seguiva la testata, e ad intervalli presso a poco uguali a quelli di partenza, tutti gli altri carichi. Per cui alle ore 10 il primo pezzo era pronto in batteria sulla cresta”.
Passata la bufera della Seconda Guerra mondiale, che determinò migliaia di Caduti e dispersi tra le penne nere, Bergamo registra un altro importante evento alpino: la nascita della Brigata Orobica, costituita nel 1953. Il presidente provinciale Mario Buttaro nell’occasione consegnò al generale Farello, primo comandante della brigata, il labaro con lo stemma della Provincia di Bergamo che diventò l’insegna dell’Orobica. Il presidente sezionale Gori assicurò che ogni anno gli alpini bergamaschi avrebbero avuto un incontro annuale a Merano con gli alpini in armi. Nacque così la “Festa del bocia”, che durò fino allo scioglimento dell’Orobica. Nel 1957 un altro avvenimento segnò la simbiosi tra Bergamo e l’Orobica. L’8 dicembre si tenne in città una grandiosa adunata alpina per la consegna delle “Trombe d’argento” al Gruppo Bergamo del 5° Rgt. Artiglieria da Montagna.
In tutti questi anni migliaia e migliaia di giovani bergamaschi hanno indossato la divisa della brigata, che fu “vittima” del ridimensionamento delle Forze Armate, che avrebbe portato alla soppressione della leva.
L’ultimo giuramento delle reclute dell’Orobica avvenne nel campo Utili di Bergamo, nel maggio 1991. La cerimonia di scioglimento del comando si celebrò un paio di mesi più tardi, precisamente il 27 luglio a Merano. In tutte e due le occasioni vi fu un caloroso abbraccio
corale tra la cittadinanza ed i suoi alpini, abbraccio che si ripeterà nella prossima Adunata nazionale, poiché Bergamo alpina vuol stringere a sè tutte le penne nere d’Italia.
Luigi Furia - L'Alpino - Gennaio 2010
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