A 98 anni sull'attenti. «Vorrei abbracciare tutti» Stampa

Ha sfilato con i veterani, poi tutto il pomeriggio in piedi alla transenna. «L'emozione è stata troppo grande. E la sera non riuscivo a dormire»

«Ma tutta quella gente, tutti quegli alpini. Ma la gente che ci applaudiva, ci salutava, che emozione è stata. Che emozione. Mi viene da piangere. Ho fatto tutto il giro sulla jeep, da piazza Sant'Anna fino al campo Utili. Poi sono tornato nel pomeriggio». Giuseppe Pietro Algeri, classe 1912, alpino tornato dal Don, parla nel suo orto, accanto all'albero di fico che nonostante il clima è carico di fioroni. «Sono tornato dal Don, dalla Russia. La ritirata, mi è andata bene. Ma l'emozione che ho provato ieri non riesco a raccontarla. Siamo arrivati alle sette e mezza della mattina con il pulmino, poi ci hanno fatto salire sulle jeep, eravamo tanti veterani. Poco prima della partenza ha cominciato a piovere e allora hanno messo il telo sulla jeep, ma poi ha smesso e l'hanno tolto. Io mi ricordo bene tutta quella gente che salutava dalle finestre, dalle transenne, tutti lì per noi, per noi alpini. Che cosa vuole che le dica? Servono parole? Io vorrei salutare tutti, abbracciare tutti, uno per uno, tutti gli alpini e tutti quelli che ci applaudivano. Ma io ho 98 anni, non potrei mai farcela a stringere le mani a tutti, quanto tempo mi occorrerebbe?».
Giuseppe Algeri abita a Torre Boldone, verso la collina, accanto al ristorante San Luis, ma è nato nel vecchio comune di Redona, alla cascina della Calvarola. Domenica, dopo avere sfilato con gli altri veterani, Algeri è andato a casa. «Ma poi sono tornato. Ho preso il tram delle valli, era la prima volta che lo prendevo, ma che bello. Da solo, certo, perché? Io vado in giro da solo, guido la macchina, certo. La uso tutti i giorni. Ma domenica non si poteva girare in auto e allora ho preso il tram. Bellissimo. Sono arrivato alla stazione e a piedi sono arrivato in Porta Nuova, mi sono messo alla transenna, erano le due e mezza e sono rimasto lì, in piedi, fino alla sera. Alle sette e mezza sono andato via. Ero un po' stanco di stare in piedi. Ho preso di nuovo il tram e sono tornato a Torre».
Giuseppe in paese lo chiamano Bepo. È vedovo da quarant'anni, si era sposato prima della guerra, ha avuto due figli. «La figlia è morta anche lei, era nata prima della guerra, mi resta mio figlio. Ne sono successe di cose nella mia vita. Tanti anni di soldato. Anche mio fratello Lio era soldato, poi lo hanno mandato in Germania, dopo il '43, poi era nella Monterosa, ma negli ultimi mesi è scappato. Si cercava di salvare la pelle. Io sono partito nel 1933 per il servizio militare, due anni, a Sondrio e Cuneo, sono stato su al Pian del Re, al Monviso, ho bevuto l'acqua del Po prima di Bossi. Poi nel '38 mi hanno richiamato. Altri cinque anni di guerra. Per la Russia sono partito nel luglio del 1941, sembrava di andare in gita. Ci hanno detto di andare, e siamo andati, senza farci tante domande. Io ero autista, guidavo il camion. Ancora oggi guido la macchina, vede?».
L'automobile è parcheggiata nel vialetto del giardino, non lontano dal fico e dall'orto. È una Bmw. Con qualche ammaccatura. «Non sono morto in Russia perché non era la mia ora, certo. Pensi che un giorno d'estate, era il 15 luglio del 1942, me lo ricordo bene, guidavo il mio camion e trasportavo un carico di bombe. Piovve giù una granata dei russi a meno di cinquanta metri. Se fosse caduta più vicina non sarei qua a raccontarlo. Ma non era la mia ora. Facevo l'autista in prima linea e penso sia stato il camion a salvarmi perché quando ci furono i russi che attaccarono io tagliai la corda con il camion, raggiunsi Podgornje, era il 17 gennaio. A Podgornje ho saputo che eravamo circondati. Ho lasciato il camion, ho continuato a piedi, con gli altri. La sera del 18 ci fu uno scontro a fuoco, c'era con me mio cugino Domenico, da allora non lo vidi più. Poi c'è stata Nikolajewka, tutti quei morti sulla spianata. Mi ricordo Padre Brevi, abbiamo fatto un pezzo di strada insieme in quei giorni, me lo ricordo che non si stancava mai di pregare, di confessare, di stare vicino a quelli che stavano male. Padre Brevi, quello di Bagnatica, era piccolo e magro, lo hanno tenuto prigioniero in Russia per tanti anni, dopo... C'è stata un'altra volta che ho pensato che era finita, quando siamo stati mitragliati dai caccia russi, allora mi sono buttato giù come morto con la faccia nella neve e sono rimasto lì e aspettavo le pallottole. Non era la mia ora».
Qualcuno aveva deciso che l'ora di Giuseppe Algeri sarebbe arrivata molto più tardi. E così l'alpino che ancora domenica è sfilato in parata, che ha seguito i suoi alpini più giovani appoggiato alla transenna, tornò in patria, nonostante il congelamento dei piedi, nonostante tutto. Grazie alla sua tempra, grazie all'astuzia, grazie a una famiglia russa che per un mese lo ospitò nella sua isba.
Racconta Algeri: «Ma domenica è stata una giornata che valeva la pena. Penso che gli italiani sono un grande popolo, che devono guardare avanti. Al pomeriggio sono tornato in città da solo e sono rimasto lì fino alle sette e mezza. Sono tornato al tram, mi sono fermato a Torre, sono andato al bar Salvi e ho mangiato il risotto. Poi ho bevuto qualche calice. Non avevo voglia di andare a dormire, era stata una giornata troppo emozionante. Volevo che non finisse. Sono andato a letto che ormai era l'una di lunedì, ero tanto stanco...».
 

Paolo Aresi il 11/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 

 
 

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