«Ci scambiavano per Robin Hood» Stampa

Gli alpini di Canada e Argentina sono legatissimi alle tradizioni

Fernando Caretti ha 84 anni: «Da noi in Argentina si dice che la chitarra la suona il gaucho (il giovane mandriano), l'arpa la suonano gli angeli: ecco, io sono più vicino all'arpa». È il presidente della Sezione argentina dell'Ana. È nato a Pallanza, sul Lago Maggiore, nel 1926: da ragazzo ha fatto il partigiano e ha scansato per un soffio la guerra: «Ci hanno chiamato alle armi nel '44, ma io in Germania non volevo andare e mi sono nascosto in montagna, a casa di mia nonna». Si è aggregato alla famosa brigata dell'Ossola. Ifascisti salivano, bruciavano le case, loro sconfinavano in Svizzera per non farsi prendere:«Ci siamo rimasti quasi fino al termine della guerra. Quando sono tornato a casa, come ringraziamento, mi hanno appioppato 13 mesi di servizio militare». È un uomo del famosissimo «Quarto, Battaglione Aosta» le cui gesta si cantano in «Sul Pajòn». Se n'è andato dall'Italia nel 1950. Aveva un buon lavoro, una famiglia, degli amici, ma dell'Italia dei primi anni dopo la guerra – quella che ha raccontato, con grande scandalo, Giampaolo Pansa - aveva «schifo: sul ponte sul Toce ho visto prima i fascisti fucilare i comunisti; poi i comunisti fucilare i fascisti. L'unico beneficiario era la "butrisa"», pesce marrone che vive nei fondali d'acqua dolce, occhi piccoli e grandi fauci. È carnivoro: «Mangiava i morti».
Fernando decise che era meglio cambiar aria. «L'Argentina mi sembrava un paese interessante, destinato a svilupparsi». A Buenos Aires ha lavorato in una ditta di 4 mila operai che faceva macchine agricole: è entrato dalla porta, si è presentato e l'hanno assunto. Doveva trasformare trebbiatrici che venivano tirate dai cavalli in trattori meccanici. «Dopo vent'anni che ero in Sudamerica, sono passato per caso davanti a un'insegna degli alpini. Ho chiesto informazioni, hanno visto che parlavo italiano e mi hanno voluto subito nel Consiglio. Non sapevano neanche chi fossi! In Argentina allora c'erano 1.800 alpini iscritti all'associazione».
Oggi è pensionato. È un «italiano all'estero» che conta, tesoriere di Feditalia, presidente dell'Unione Ossolana argentina: «Questa è la 22ª adunata degli alpini a cui partecipo. Tutti gli anni rientro in Italia apposta». È arrivato giovedì, si è fatto 13 ore di volo e di questa tre giorni bergamasca è entusiasta: «Vorrei che quelli che criticano provassero ad avere la responsabilità di organizzare una cosa del genere». Oggi anche negli alpini vede «purtroppo persone non tanto corrette, però sono una parte infinitesima». Non gli piacciono «questi ragazzi giovani che mettono su il nostro cappello e poi li vedi cadere in terra ubriachi». Caretti è orgoglioso di essere un alpino perché questo corpo gli ha trasmesso «un senso di ordine nella convivenza civile e di condivisione che è molto importante, anche in tempo di pace. Essere alpini, anche a tanti chilometri di distanza dalle nostre Alpi ci conforta di fronte alle difficoltà. La montagna insegna molte cose: quello che impari sotto gli alpini continui poi a usarlo durante tutta la vita».
Ricordando certi incontri con i vecchi commilitoni si commuove: «Queste, sa, sono debolezze nostre di alpini… che io non vorrei perdere. Oggi c'è dell'arroganza, della prepotenza senza fondamento che fa paura». Gli alpini preferiscono essere così, nascondere magari dietro un bicchiere di vino rosso o un cappello dalla foggia un po' strana sentimenti grandi, generosi. Un senso dell'amicizia, della lealtà quasi perduto.
Ferdinando Bisinella è presidente della Sezione Ana di Montreal, e anche della Federazione ex militari italiani del Canada, dove vive da 43 anni: «La nostra è la più vecchia Sezione del Nordamerica» dice. «È stata fondata nel 1954». Si incontrano durante tutto l'anno: a febbraio ricordano i soci che hanno più di 80 anni; festeggiano san Patrizio, il patrono, la Festa della Repubblica il 2 giugno, il 4 Novembre assieme a tutti gli altri ex militari italiani. Oggi gli alpini in Québec sono ben accolti «ma una volta, quando ci vedevano con la piuma sul cappello ci scambiavano per Robin Hood» racconta divertito. È una terra di nevi ma in Canada non hanno mai fatto guerre in altura come noi e non hanno truppe di montagna. «Eravamo 400 alpini. Ora che la naja non c'è più l'età media si alza; e tanti ci lasciano».
Bisinella ha lavorato come idraulico, oggi è in pensione e si gode i guadagni dei primi anni, duri, di lavoro da immigrato: «Dall'81 le adunate le ho fatte tutte». Questa di maggio per lui è anche l'occasione per andare a trovare i parenti che ha in Italia. Se gli chiedi perché si sobbarca ogni anno un viaggio del genere risponde in maniera lapidaria: «Alpini si nasce, e alpini si muore».


Carlo Dignola il 10/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 

 
 

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