La dura esperienza di due alpini di Città Alta nel 1964 al Passo di Resia: ci affidavamo al fiuto del cane York
L'alpina più piccola è tutta vestita di rosa e sta in un passeggino ornato di coccarda tricolore. Sgambetta parcheggiata accanto alle giacche a vento blu dell'Ana di Trento, mentre la mamma e la sorellina maggiore cantano a gola spiegata l'Inno d'Italia durante l'alzabandiera al Parco Suardi. In carrozzella, a motore e di tutt'altro genere, arriva anche un vecchio alpino dallo sguardo d'acciaio. Basta quello e i giovani in tuta mimetica scattano sull'attenti. Nella tenda della videoconferenza, il collegamento con le basi di Herat e Kabul è ancora aperto. Carlo, cinque anni, si siede al microfono e chiede agli alpini in Afghanistan: «Ma voi cosa fate? Perché da grande voglio fare l'alpino». E loro glielo spiegano. Perché quello dei giovani è l'interrogativo aperto, non esistendo più il serbatoio della leva militare obbligatoria. «Si devono trovare altri modi di avvicinare i ragazzi – spiega il consigliere nazionale trentino Paolo Frizzi – c'è una sperimentazione, l'anno scorso han partecipato in 150, quest'anno 250...vedremo. Cambiano i tempi e i modi di fare l'alpino, ma la sostanza e i valori restano e val la pena di trasmetterli ai giovani». Passano molti bambini sulle spalle dei genitori. In testa hanno il cappellino comperato alle bancarelle, uguale a quello del nonno: chissà! In attesa dell'alpino di domani, dell'alpino di ieri raccontano Giovanni e Luigi Cavalieri, alpini di Città Alta, in queste circostanze il massimo. «Servizio militare nel '64 – racconta Luigi –. Al Passo di Resia. Noi e i lupi, una dozzina di alpini del Valdichiese in una casermetta. Ci chiamavano le lampadine da tanto che eravamo rapati. Doccia una volta al mese se andava bene, per farla si andava fino alla caserma di Malles. Per il resto, le bombe dei terroristi altoatesini che in quel periodo facevan saltare i tralicci. Una volta c'è stato un gran botto ed è venuto giù di tutto. Normalmente, ci sparavano dall'alto e poi, via. Di notte, per il giro di guardia mandavamo avanti York, il nostro cane ereditato dalla Polizia. Ci fidavamo del suo istinto e non ci ha mai tradito. C'era un terrorista. Klotz, era ricercato. Una sera ha bussato alla porta della caserma». Giovanni e Luigi non sono patiti delle adunate, ma questa è proprio in casa, come si fa a rinunciare?
Chi invece non si è perso un raduno, sono gli alpini barbuti come Babbo Natale, e per giunta con le camicie rosse della sezione di Torino: forse perché le belle ragazze si fan fotografare con loro, a mò di portafortuna. E intanto, nella massa semovente e a crescente tasso alcolico, adocchiano i ragazzi in tuta mimetica, l'ultima generazione alpina. Sarà un'impressione, ma fra le adolescenti i tipi da discoteca col cavallo basso in questi giorni stan perdendo terreno.
Festa e fanfare van benissimo, ma gli alpini non dimenticano la solidarietà. E, davanti al gazebo informativo sistemato sul sagrato di San Bartolomeo c'è Franco Pini di Ponteranica. Passa veloce Gianmario Gervasoni, l'orobico-ligure presidente dell'Ana di Savona, nipote del fondatore della sezione Ana di Bergamo e del mitico «Scarpone». «Faremo una lotteria – spiega Gervasoni – e intendiamo destinare parte del ricavato ai due Alpini del'Anno bergamaschi che lavorano in Africa: Franco Pini e Rino Berlendis». E fugge via, sta per arrivare il labaro militare.
S. P. il 08/05/2010 - L'Eco di Bergamo
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