Il cappello dell'alpino un simbolo da leggere Stampa

Non ce n'è uno uguale all'altro. In ogni dettaglio una storia. Dalla forma del copricapo all'inclinazione della penna

 

 

Chi scrive lo fa per coloro che non sanno cos'è il cappello alpino. Oggi se ne vedono in giro tanti, a migliaia, e c'è chi pensa che il cappello con la penna sia un copricapo qualunque. Non è così. È vero che lo si può comperare sulle bancarelle e, con un po' di euro, regalare al bambino che vuole andare fiero di questo cappelluccio-giocattolo, pieno di fronzoli e con una penna di tacchino lunga da qui a lì.
«Nasce» sulla testa dell'alpino. E non ce n'è uno uguale all'altro. Guardatevi in giro e lo constaterete. Quando nel magazzino della caserma la recluta lo riceve in dotazione, ha una forma e una dimensione standard. Come previsto dai regolamenti militari. Ma, a differenza di altri copricapi dei corpi dell'esercito (vedi quello dei bersaglieri: bellissimo ma immodificabile), il cappello degli alpini cambia. Si trasforma, presenta un'infinità di segni e diventa il «mio», il «tuo» cappello.
Date un'occhiata ai cappelli dei più anziani, di quelli che lo hanno portato in guerra. Sono stinti. Hanno preso pioggia e neve, sono serviti per raccogliere l'acqua da una pozza, hanno sostituito la gavetta in un rancio improvvisato per metterci dentro la pasta o un po' di patate, li hanno usati come abbeveratorio per il mulo stanco. Volete vedere un autentico cappello che, come si dice nella naia, di «bufere» ne ha attraversate? È quello di Nardo Caprioli, l'indimenticato presidente nazionale. Lui l'ha portato sul Don e a Nikolajewka. Domani ci sarà alla sfilata: su una Campagnola, ma sfilerà. Un cappello da ammirare. Ha una storia.
Un tempo esistevano delle distinzioni tra cappello di «'ècio» e cappello di «bocia» (una categoria ormai scomparsa). C'erano delle regole (non sempre ferree) non solo per quanto riguarda la lunghezza della penna ma anche la sua inclinazione. L'alpino verso la fine del servizio militare, che si era fatto campo estivo e campo invernale, che aveva nei «vibram» chilometri e chilometri di marcia in montagna con zaino e fucile, poteva inclinare la penna: lei e il suo proprietario erano «stanchi». Questo valeva nei giorni di licenza o dopo, al congedo, ma mai in caserma; l'ufficiale o anche il semplice sergente potevano refilare qualche giorno di consegna (ossia: niente libera uscita e pulizie in cortile) di fronte a una penna non conforme.
Il «bocia», e men che meno la recluta ultima arrivata, non poteva permettersi un sia pur minimo ritocco alla penna. Doveva essere corta, poco più che un mozzicone: sulla sua lunghezza vegliavano, con accuratissimi controlli, gli «'eci». E se qualcosa sfuggiva, sicuramente non agli occhiuti ufficiali di picchetto che passavano in rassegna divise e cappelli al momento dell'uscita. Penna nera e di corvo, assolutamente.
E i cappelli? Per i «bocia» la regola era ferrea. Il cappello doveva restare un «tubo». Rigido, con la cupoletta e la larga tesa a grondaia come l'avevano ricevuto in fureria. L'anziano invece poteva permettersi di «tirarlo». Si trattava di un'operazione che richiedeva un po' di abilità (gli anziani erano espertissimi), dovendo sottoporre il cappello a una specie di messa in piega.
Come prescritto, l'ala sul retro doveva essere rialzata e aderire il più possibile al cappello verso e proprio. La tesa sul davanti doveva perdere la forma di gronda e volgersi verso il basso con uno spiovente sul quale la pioggia doveva scorrere senza fermarsi. Per arrivare a questo risultato occorrevano bagnature, stiracchiamenti, sapienti colpi di spazzola, da ripetere tutti i giorni. Il risultato migliore era garantito dal ricorso a spazzolate con una miscela di acqua zuccherata (ma non troppo). In questo modo il panno si sarebbe ristretto al meglio e non avrebbe mai più perso la forma.
C'é un altro tipo di ritocco, molto più drastico ma che se scoperto, poteva costare il sequestro del copricapo, la punizione del proprietario e l'addebito in fureria. Si tratta di ritagliare il cappello lungo tutto il bordo della tesa, così da ridurla di un dito o più. In questo modo si poteva «tirare» il panno fin che si voleva. In questo modo il cappello era decisamente fuori ordinanza.
Per evitare conseguenze i più scaltri si dotavano di due cappelli: uno entro i limiti della norma e l'altro da sfoggiare in licenza. In questo modo, indossando il primo era possibile superare l'ostacolo dell'ufficiale di picchetto, mentre l'altro restava celato nella sacca o nella valigia per essere esibito una volta a casa.
Vedete un po' cosa vuol dire il cappello alpino. Che agli incontri tra penne nere, ai raduni e alle adunate è simbolo e vetrina. Da anni l'Ana chiede che questa vetrina, dove dovrebbe comparire solo il distintivo del reparto d'appartenenza, o poco più, non diventi un banco da rigattiere o un medagliere da generale sudamericano.
Non tutti rispettano questo invito. Sono probabilmente quelli che di naia ne hanno fatta ben poca, oppure che ignorano quale sia l'autentico spirito dell'alpino e la tradizione che rappresenta. Ma all'adunata si finisce col perdonare un po' tutto. L'importante è andare in giro e sfilare con quell'unico, inimitabile, bellissimo cappello.
 

Pino Capellini il 08/05/2010 - L'Eco di Bergamo

 

 
 

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Oggetti Smarriti

Sono stati ritrovati parecchi oggetti smarriti durante l'adunata.

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